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 2018  marzo 18 Domenica calendario

La donna che cascò su Warhol e Bowie

Primo maggio 1947: una ragazza si lancia nel vuoto dall’Empire State Building. La foto finisce su “Life” e diventa un’icona del pop. Ma chi c’era dietro questa storia? Un romanzo, italiano, ora lo svela Il primo maggio del 1947 una donna di ventitré anni di nome Evelyn McHale salì all’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building, a Manhattan, e dalla terrazza panoramica del grattacielo si gettò di sotto. Quattro minuti dopo, approdato con misteriosa compostezza ed eleganza sul tetto di una limousine posteggiata sulla Trentaquattresima Strada, il corpo di Evelyn venne immortalato da un giovane studente di fotografia di nome Robert C. Wiles che passava di lì per caso.
Il biglietto lasciato dalla donna prima del salto diceva: “Non voglio che nessuno mi veda, nemmeno la mia famiglia. Fatemi cremare, distruggete il mio corpo.
Vi supplico: niente funerale, niente cerimonie. Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo a giugno. Ma io non sarei mai la brava moglie di nessuno. Sarà molto più felice senza di me. Dite a mio padre che, evidentemente, ho fin troppe cose in comune con mia madre”. Il corpo venne cremato ma non era nemmeno lontanamente destinato all’oblio, tanto che il giorno successivo finì sulla rivista Life come “Foto della Settimana”. A fare da controcanto al biglietto di addio, fu la didascalia che accompagnava la foto: “Ai piedi dell’Empire State Building, il cadavere di Evelyn McHale riposa in pace in una bara grottesca, il suo corpo si è schiantato sul tetto di una macchina”.
Il suicidio di Evelyn venne così consegnato a una celebrità certa e confermata da Andy Warhol in persona, che quindici anni dopo rielaborò la foto di Wiles trasformandola, come parte della serie di serigrafie Death and Disaster realizzate tra il 1962 e il ’67, nell’opera Suicide ( Fallen Body). Sarebbero passati ancora poco più di trent’anni e, nel ’93, Evelyn sarebbe stata evocata nel video della canzone Jump They Say di David Bowie, in cui la rockstar viene a sua volta immortalata mentre reinterpreta il salto nel vuoto e l’elegante posa della donna sdraiata morta sul tetto deformato dell’automobile di sotto (citando in modo postmoderno McHale, Wiles e Warhol insieme). Ma prima che la cultura pop se ne impadronisse, la stampa dell’epoca lo aveva già definito “il suicidio più bello”, alludendo logicamente all’eleganza della posa accidentale e non al gesto in sé. A raccontarne le premesse (ovvero la vita di Evelyn McHale) è oggi l’impeccabile e documentatissimo romanzo di Nadia Busato Non farò mai la brava moglie di nessuno (Sem, pagg. 160, 16 euro).
Scritto con grazia e anche affetto (nei confronti di Evelyn), il libro è accuratissimo nella ricostruzione che della storia della donna dà un resoconto corale.
Si alternano così le voci narranti (figure maggiori o minori rispetto alla protagonista e all’evento in sé), convergendo nel ritratto dell’eroina del libro. A rendere ancora più interessanti i fatti, è il divenire gradualmente musa della protagonista, cantata non per la morte ma per la vita vissuta prima del suicidio. Quest’ultimo, per contrasto, diventa così solo un punto di non ritorno o una sorta di orizzonte degli eventi, arrivato troppo in fretta, scarsamente annunciato ma in qualche modo inevitabile. La vita di Evelyn procede con una certa noncuranza verso l’epilogo, e nel farlo si affolla di particolari mai del tutto veri ma sempre verosimili, probabili, possibili, di “tracce della vita” che ingentiliscono e concedono respiro e momentanea tregua alla morte e alla sua celebrazione. Di particolari è fatta questa breve vita in forma di romanzo. Che sia il vento di primavera su un binario della stazione di Cracovia che accoglie una delegazione di giovani militari americane. O una bambina di tre anni (la stessa Evelyn) che vince temporaneamente la depressione della madre gettandole le mani dietro al collo, poggiandole la testa sulla spalla e abbandonandosi all’abbraccio.