Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  marzo 18 Domenica calendario

Anche tu detective. Grazie al mio giallo. Intervista a Roger Rosenblatt

Un flâneur ragazzino, imbevuto di narrativa pulp che lo porta a vedere un comportamento sospetto dietro ogni passante, è il protagonista de Il ragazzo detective. Un’infanzia a New York (Nutrimenti) dello scrittore newyorchese Roger Rosenblatt, giornalista veterano per Time e Washington Post e docente di scrittura. Così come nei sogni può capitarci di essere versioni di noi più giovani o più vecchie, qui Rosenblatt ripercorre – nelle vesti cangianti del monello e dell’adulto divorato dalla nostalgia – i luoghi del cuore, facendoli rivivere con la sola forza della prosa. Come se il girovagare per la Grande Mela fosse una pista investigativa, anziché esistenziale.Quanto era grande la sua passione per le detective story?
«È iniziata come per ogni ragazzino che si interessa del mondo: a quei tempi c’erano un sacco di storie di detective in radio e in tv. Pensavo che il detective fosse il personaggio più romantico in assoluto, e volevo essere così già a otto anni. Immagino il fastidio di chi camminando per New York si vedesse seguito da questo ragazzino – cioè me – senza avere idea di chi fosse e perché lo seguisse. Erano i miei sospetti».
L’idea di investigazione ha a che fare con il giornalismo e la scrittura.
«Facciamo tutti i detective. Per esempio lei, proprio adesso, si sta occupando del “caso Rosenblatt”, e deciderà se sono colpevole o innocente. Io concludo il libro rivolgendomi direttamente al lettore in tono hard-boiled – “E tu, amico. Tu colpevole e senza colpa”. Penso sia vero per tutti noi: alla fine siamo tutti colpevoli e innocenti e il caso investigativo più importante che seguiamo è proprio il nostro».
Tra gli aneddoti gustosi del libro, c’è l’incontro con quello che era il suo idolo assoluto: Sherlock Holmes. O perlomeno, con l’attore Basil Rathbone, l’attore che più di tutti si è fuso con il personaggio di Arthur Conan Doyle… «Ci trovavamo in un negozio di scarpe per bambini a Madison Avenue. Io entrai lì con mio padre e lui stava uscendo. Ci passammo accanto senza dirci nulla, come fanno i veri investigatori quando sono sotto copertura. A me parve strano il fatto che fosse lì senza accompagnare un bambino, pensai che stesse seguendo un caso e subito dopo mi dissi che lui doveva aver pensato lo stesso di me. Oggi mi rendo conto che al massimo il pensiero di Rathbone sarà stato: “Ragazzino, togliti di mezzo”».
“Il ragazzo detective” è un memoir, e lei alla Stony Brook University tiene un corso di scrittura di memoir. Quali sono i segreti di questa forma letteraria?
«Il primo è il tempo. Abbiamo inventato il tempo perché tutto non accada allo stesso momento, ma il tempo non è qualcosa che esiste davvero. Al lettore non interessa che il martedì segua il lunedì o che il 2017 venga prima del 2018. Conta più il tuo senso di cosa sia importante rispetto alla cronologia. E la seconda cosa è che nessuno ha ricordi accurati: pensiamo solo di averli, ma poi ci rendiamo conto che non è così. Questo succede perché vogliamo ricordare le cose in un certo modo, che siano accadute davvero in quel modo oppure no. Per questo amiamo lo stream of consciousness: perché ti permette di pensare liberamente a tutto ciò che fa parte del tuo passato e del tuo presente. Per me il memoir è – entro certi limiti, ovvio, perché non può essere un atto d’invenzione – un lavoro creativo: crei o ricrei la vita come opera d’arte».
A proposito di clochard, un personaggi indimenticabile, tra quelli che tratteggia brevemente tra una passeggiata e l’altra, è Charlie l’homeless… «Più una storia sembra inventata più è vera, si dice. E quella di Charlie fa quell’effetto. Io conosco gli homeless nel mio quartiere, perché quando posso faccio volontariato. Un giorno vedo Charlie davanti alla chiesa metodista, mentre sistema sul marciapiede divanetto, sedia e tavolino. Allora mi siedo con lui e penso, forse immodestamente, di avergli fatto un favore con la mia compagnia. Ma lui a un certo punto mi dice: “Ehm, Roger…. ti spiacerebbe ora alzarti? Aspetto ospiti”».
Tra i luoghi di New York che passa in rassegna, quale è il preferito?
«Il primo che mi viene in mente è l’Empire State Building. Quando sono di fronte a questo gigante della mia gioventù, la mente del ragazzino che in fondo sono rimasto va a King Kong: lo vedo sulla cima dell’edificio. La lezione di quel vecchio film – la bestia uccisa, in fondo, dalla bellezza – era piena di un’energia romantica che mi lasciava a bocca aperta. Nel libro immagino un dialogo tra i due giganti, col grattacielo che dice con dolcezza a Kong che ora può riposare. Così un grattacielo può iniziare a parlare». ?