la Repubblica, 18 marzo 2018
L’incoscienza di un’impresa all’antica
Quando, fra dieci o trent’anni, si parlerà delle caratteristiche di un campione, sarà d’obbligo ricordare la Sanremo di Nibali.
Una corsa, in teoria, che non avrebbe mai potuto vincere, e infatti non era partito per vincerla. Non era studiata, faceva parte d’un programma d’avvicinamento al prossimo obiettivo, la Liegi. È una classica, spesso noiosissima, per velocisti, e il Nibali velocista vale zero. Sì, finale in discesa, e in discesa Nibali è fortissimo e grazie alla discesa ha vinto alcune corse. Ma due importanti, in discesa le ha perse per caduta: il mondiale a Firenze, la corsa olimpica in Brasile.
Alla partenza era inverno e all’arrivo primavera, ma a Nibali freddo e caldo non pesano, come tante altre cose. È un ragazzo con la valigia, che ha cominciato andando alle corse addormentato sull’auto guidata dal padre, cercando futuro e grandezza lontano da casa.
Prima in Toscana, poi in Svizzera, dove abita ora, e vestendo maglie esotiche.
Guardatelo sul podio, nodoso come un olivo, la barba di tre giorni coi segni dei baci come scottature. Sembra uscito da un film di Germi, o di Scola. Piange ridendo e ride piangendo. Sa che da oggi gli chiederanno più dell’impossibile, perché l’impossibile l’ha appena realizzato. Un campione deve avere testa, cuore e gambe ma anche la capacità di “sentire” la corsa come i cani sentono i terremoti e gli innamorati la forza degli occhi. È una vittoria meravigliosamente antica, è un’impresa autentica. È da brividi per l’apparente casualità da cui è nata e per la spavalderia successiva. O il coraggio, l’incoscienza, la follia, la capacità da rabdomante di intuire l’acqua in un tratto di deserto, di seguire un pensiero lontano come fosse una libellula, e vederlo diventare grande come una cometa.
Due cose su ieri. Nibali non va via nel tratto duro del Poggio, ma in quello più facile, un falsopiano più che una salitella.
E non è lui il primo a scattare, ma lo sconosciuto Neilands di una semisconosciuta Israel Academy. Un pesciolino, e da quando in qua gli squali inseguono i pesciolini? Fin qui, il capitano Nibali fa il gregario del compagno Colbrelli, velocista. La libellula si trasforma in gabbiano, e maestosa è la discesa di Nibali.
Il problema è la pianura, controvento. Terrà? Tiene, tiene, è bravissimo nel voltarsi una sola volta, sa che il gruppo gli sta mangiando metri d’asfalto ma quanto è vicino non lo sa, lo sente. Una sola volta, altrimenti rischiava la fine di Bitossi a Gap. Così dico che solo i campioni sanno improvvisare, ribellandosi a una malinconica maggioranza di automi telecomandati dalle ammiraglie, sventolando la loro libertà e la loro fantasia. Una bella bandiera.