la Repubblica, 19 marzo 2018
«Silurato dagli amici ma ora torno nel Pd». Intervista a Giovanni Consorte
BOLOGNA Giovanni Consorte indica un armadio: «Sta tutto lì dentro».
In quelle carte c’è la storia di come lui e Ugo Sposetti, a metà degli anni Duemila, hanno sistemato il macigno dei debiti dei Ds e le rogne dell’Unità. «Massimo D’Alema, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani… Nel gruppo dirigente erano al settimo cielo. Poi quando sono cominciati i miei guai, il telefono ha smesso di squillare».
Eppure mi risulta che nel progetto di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Pci in 55 fondazioni prima della nascita del Pd ci fosse il suo zampino. E all’epoca i guai erano già in corso.
«Avevo lasciato la tessera dei Ds alla fine del 2005, in seguito alla scalata Bnl per la quale sono stato assolto.
Da allora mi sono sempre considerato un indipendente di sinistra».
Che continuava a dare consigli ai suoi vecchi amici, anche se il telefono non squillava. E adesso?
«Adesso ritorno. Mi iscrivo al Partito democratico».
Ha scelto proprio un bel momento.
«È quello giusto».
Perché ora?
«Non mi sono mai riconosciuto nella fusione fra i Ds e la Margherita. Considero tuttavia la scissione un errore gravissimo, anche perché dettato esclusivamente da logiche personalistiche. Guardi che non sto salvando Renzi».
La scissione mica l’ha fatta lui.
«No, ma ha contribuito. Non ha capito che gli stavano scavando la fossa sotto i piedi. Era convinto che il temperamento, per non dire l’arroganza, fosse la sua forza, era invece la sua debolezza. Non un errore da poco».
Non mi ha risposto: perché ora?
«Perché la politica si è ridotta a puro marketing e tecniche di comunicazione. La situazione è complicata e per affrontare i problemi non bastano le pur necessarie motivazioni morali. Ci vogliono competenze e io ho avuto la fortuna di accumulare esperienze che nel Pd non sono in tanti ad aver fatto. Abbiamo eliminato le sezioni e creato i circoli, ma bisogna potenziarli, crearne di nuovi…».
Lei non sta parlando come un semplice militante.
«Per quello che mi compete farò la mia parte. Non sono il tipo che resta fuori dalla mischia».
Non c’erano dubbi. Sono passati quasi 13 anni dalla stagione delle scalate bancarie, ma il suo nome è ancora legato a quella. Se la ricordano soprattutto per la vicenda Bnl che per il salvataggio del Bologna calcio.
«Quella storia ha condizionato tutta la mia vita e l’ha pure rovinata, anche se ne sono uscito pulito.
Decisi di difendermi solo in tribunale, ma agli interrogatori decisivi i giornalisti non vennero.
Com’è andata davvero non l’ho potuta quindi raccontare mai a nessuno. Ho anche provato a scrivere un libro, ma non sono mai riuscito a trovare un editore. E questo vuol dire qualcosa».
Racconti, allora.
«Tutto nasce quando le Generali comprano dallo Stato l’Ina-Assitalia e l’Antitrust dice che devono cedere il 50% della quota in Bnl Vita, la compagnia assicurativa della Banca nazionale del lavoro. A noi dell’Unipol interessava e la comprammo. Avevamo però bisogno per entrare nel consiglio di Bnl dell’autorizzazione della Banca d’Italia, che non arrivava mai. Ma finché alle Generali c’erano Gianfranco Gutty e Fabio Cerchiai l’accordo per l’acquisto veniva sempre rinnovato. Poi arrivò Giovanni Perissinotto e inspiegabilmente le Generali cambiarono idea. Nel consiglio c’era come indipendente pure Diego Della Valle che insieme alle Generali appoggiava l’offerta pubblica di scambio che gli spagnoli del Banco de Bilbao, allora azionisti importanti di Bnl, avrebbero fatto per assumere il controllo della banca italiana».
E voi che c’entravate?
«Forse eravamo considerati un problema, perché con Bnl Vita avevamo diritto a una presenza nel consiglio della banca. Fatta sta che a gennaio 2005 la Popolare di Verona e Novara avviò una trattativa con gli azionisti Bnl avversari degli spagnoli, riuniti in un contropatto con alla testa Francesco Gaetano Caltagirone. Che però saltò. Così ad aprile ci venne l’idea di proporre la fusione di Unipol Banca in Bnl».
La ragione?
“Difendere la possibilità di prendere Bnl vita, diventando azionisti importanti di una grande banca del Paese».
Impossessandovi direttamente della casa madre.
«Non era così insensato. Ma la Banca d’Italia ci disse di no. Però il governatore Antonio Fazio un giorno chiamò me e Ivano Sacchetti per chiederci di intervenire sul Monte dei Paschi, del quale Sacchetti era consigliere, per convincerli a comprare proprio la Bnl. Disse che a Siena la fondazione che controllava l’istituto non ne voleva sapere di perdere la maggioranza. Chiamammo Giuseppe Mussari, all’epoca presidente della fondazione, proponendogli anche di partecipare come Unipol all’operazione di acquisizione di Bnl da parte di Mps, acquistando qualche centinaia di filiali per Unipol Banca».
E lui?
«Qualche giorno dopo ci telefonò: “Il pallottoliere ce l’abbiamo anche qui a Siena”. Clic. Restai di stucco».
Se avevano il pallottoliere doveva essere scassato, a giudicare da com’è andata l’operazione Antonveneta.
«Bnl sarebbe costata metà di quella banca. Alla fine di giugno ci contatta lo studio Gianni, Origoni, Grippo & partners per chiederci se eravamo interessati a un accordo a nome di Caltagirone e del suo gruppo. Solo in quel momento decidemmo di prendere in considerazione il lancio di un opa».
I famosi furbetti del quartierino. Ricucci & co.
«Non li avevo mai visti prima.
Chiamai Fiorani e gli chiesi chi fossero. Lui era socio nell’Hopa di Brescia dove c’era anche Unipol e sapevo che li aveva finanziati».
Come, lo sapeva?
«Lo sapevano tutti, anche voi giornalisti. Per centinaia e centinaia di milioni sono stati finanziati, per comprare azioni Bnl, ma nessuno ha aperto bocca. E invece faceva gioco accomunare noi ai furbetti del quartierino. Ancora oggi dico meno male che mi intercettavano.
Perché al di là delle frasi assolutamente insignificanti…»
«Abbiamo una banca?», le chiese Fassino.
«E io risposi in quella telefonata che era fatta. Comunque l’entusiasmo da parte sua era facilmente comprensibile».
Non era l’unico politico con cui parlava il segretario Ds. C’era pure per esempio Nicola Latorre, all’epoca super dalemiano.
«Erano loro che cercavano me. Ma il fatto che il mondo cooperativo facesse un’operazione del genere poteva far piacere a qualche politico? Non mi pare ci sia nulla di strano. In più abbiamo lasciato un’azienda con 6,2 miliardi di patrimonio netto e 350 milioni di utili. Quella con la Bnl era una delle poche operazioni fatte con soldi veri. Non si può dire altrettanto dei dissesti negli ultimi dieci anni. Ma quando hanno capito che facevamo sul serio…».
Cos’è successo?
«Dovevamo avere le autorizzazioni al massimo entro la metà di settembre, ma la Banca d’Italia ci disse che finché non avessimo avuto il via libera dell’Isvap, non ci avrebbero dato il loro. Ebbene, l’Isvap ha traccheggiato due mesi e mezzo. La Consob in quel periodo ci chiese chiarimenti per 42 volte».
Non mi dica che sospetta una regia dietro i ritardi.
«Sto ai fatti»
Chi era il presidentIsvap?
«Giancarlo Giannini. Però non è finita. Ai primi di novembre ci convoca Fazio, dopo gli oltre 20 incontri fatti con la Banca d’Italia, per dirci che dobbiamo trovare un miliardo in più, solo per tappare la bocca alle polemiche. Troviamo anche il miliardo. A quel punto entra in ballo la magistratura e salta l’operazione».
Indagavano da tempo, lo sa.
«C’era chi non voleva che l’operazione si facesse. Bastava leggere i giornali. C’era una componente dei Ds contraria, forse ritenendo che si potesse rafforzare il gruppo dirigente che faceva capo a Bersani, D’Alema, Fassino. Era contraria la Margherita di Rutelli.
Contrari Della Valle, Montezemolo, Nerio Nesi, la Cgil romana…».
Era un’operazione dove certa politica aveva enormi interessi.
Innegabile.
«Guardi, noi non dovevamo nulla alla politica, non avevamo fatto carriera per meriti politici. Detto questo, conoscevo i rischi. Andai a parlare anche con Gianni Letta, sottosegretario di Berlusconi allora al governo. Letta mi disse: “Consorte, mi spiace che lo facciate voi, ma non vi ostacoleremo”. È stato di parola. Non avevo valutato che viceversa ci saremmo dovuti difendere dai cosiddetti amici e di parte della sinistra».
Gli scandali degli ultimi anni, da Etruria a Montepaschi, dimostrano che la politica non ha imparato proprio nulla da quella stagione.
»Già, Etruria. Avevo fatto un piano per tentare di salvarla. C’erano risorse interne sufficienti per ricapitalizzarla».
Ma non le hanno dato retta.
«Pare proprio di no»