La Stampa, 18 marzo 2018
Maria Gabriella di Savoia: Chiacchiere inutili, mio fratello era d’accordo sul rimpatrio
«Sento che siete finalmente nel posto giusto, qui non si sente vibrare nessuna angoscia. Siete di nuovo insieme, e siete sereni, nel vostro Paese». Maria Gabriella di Savoia (nipote di re Vittorio Emanuele III, figlia di Umberto II e sorella del principe Vittorio Emanuele) sta parlando a tu per tu con i suoi nonni. Si rivolge a loro con un bisbiglio. Ed è come se fra lei e loro non ci fosse un sepolcro. La principessa è arrivata ieri alle 11 al santuario di Vicoforte confondendosi con i fedeli che andavano a messa. Voleva apprezzare di persona e, soprattutto, in solitudine, il risultato della sua battaglia: riportare in Italia le salme dei nonni Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia. Lei è stata la grande artefice di questo rimpatrio che il 15 dicembre scorso trascinò il santuario di Vicoforte sotto i riflettori del mondo.
Placate le proteste, «ora l’Italia si appassiona al governo che non c’è, piuttosto che alla vicende di casa Savoia», la bambina bionda che giocava sulle ginocchia del re d’Italia, divertendosi a pizzicargli le guance, fissa la coppia di tombe gemelle in marmo verde scuro e beige sorvegliate dalle telecamere nella cappella di San Bernardo. La basilica, avvolta da nubi basse e una pioggia fine, è gelida. Accompagnata dal delegato di Casa Savoia Federico Radicati di Primeglio e dallo storico Aldo Mola, la principessa si stringe nella sciarpa grigio perla come i suoi occhi, e ammira gli affreschi: «Questo è il nostro mausoleo, bello da togliere il fiato, ho portato qualche libriccino sulla Sindone, so che è stata qui per qualche tempo». Poi accetta di raccontare per la prima volta i retroscena di una vicenda che ha diviso il Paese.
Che cosa prova vedendo per la prima volta le tombe dei suoi nonni in Italia?
«Avverto finalmente un senso di pace, ed è come se me l’avessero confermato anche loro, qui a Vicoforte hanno ritrovato la serenità che meritavano».
I suoi familiari hanno detto che era stata lei, da sola, a prendere l’iniziativa per il rientro delle salme. Come mai?
«Non è vero. Io non sono stata l’unica artefice, ma un anello di un’importante catena. Ecco la lettera che abbiamo inviato al capo dello Stato. È firmata in primis da mio fratello Vittorio Emanuele, poi da me. Lui era al corrente di tutto, tranne che della data del rientro, del resto ignota anche a me. Abbiamo fatto tutto insieme».
Che cosa l’ha spinta a scrivere al presidente Mattarella?
«Mio nonno era sepolto ad Alessandria d’Egitto, e quando vidi che lì, un anno fa, i terroristi facevano esplodere il consolato d’Italia e una chiesa dopo l’altra, mi preoccupai moltissimo. Se avessero fatto saltare in aria anche il monastero di Santa Caterina con la salma del re dentro sarebbe stata una brutta figura per noi e anche per l’Italia».
La risposta del presidente?
«Positiva e rapida: gli siamo tutti molto grati, con noi è stato umano e comprensivo».
Non avete mai pensato di traslare le salme a Superga?
«No, a Superga erano sepolti i re di Sardegna, mio nonno è stato re d’Italia».
Il rientro dei feretri è avvenuto in gran segreto. Perché?
«Più che di segreto parlerei di prudenza, perché il rientro di un sovrano tenuto lontano dall’Italia per oltre mezzo secolo è un’operazione da gestire fuori dai clamori, con la massima cautela possibile. Nessun segreto, ma tanta discrezione».
Però l’aereo militare utilizzato per il rimpatrio della salma del re dall’Egitto ha suscitato polemiche.
«Si è trattato di un viaggio di esercitazione, non è costato nulla allo Stato. Poi forse non lo ricordano tutti, ma mio nonno era soprannominato il “Re soldato”, quello delle tute mimetiche era il suo mondo».
Quando la sua sedia è stata l’unica a rimanere vuota il 18 dicembre scorso al grande pranzo della sua famiglia organizzato qui a Vicoforte, si è parlato di giallo, di spaccatura tra i fratelli.
«Nessun giallo. Quel giorno stavo molto male e ho avvertito che non sarei venuta. Poi ci siamo visti tutti pochi giorni dopo, a Natale, a casa mia in Svizzera. Meglio così: preferisco stare lontana da polemiche e riflettori».
Anche lei come suo fratello pensa che la destinazione finale delle salme sia il Pantheon?
«Assolutamente no. I nonni devono restare qui, e poi il Pantheon non è mai stato preso in considerazione, semmai l’alternativa era il Vittoriano».
Allora perché Vittorio Emanuele e il figlio Emanuele Filiberto hanno posto la questione?
«Tutte chiacchiere inutili, pensi che mio nipote Emanuele Filiberto ha definito questo straordinario santuario barocco “un petit église du village”, una piccola chiesa di campagna. I miei nonni dovevano tornare in Italia e siamo riusciti a farlo grazie alla mediazione del presidente Mattarella che ringrazio ancora».
Perché non a Roma, visto che si tratta del re d’Italia?
«Vittorio Emanuele III parlava piemontese, è stato anche conte di Pollenzo e per prima cosa capo dello Stato per 46 anni. Qui ci sono le sue radici, è questa la scelta giusta».
Quindi ora in famiglia i rapporti sono più sereni?
«Sì, a parte che quelli con Sergio (Serge di Jugoslavia, ndr) che si permette di parlare male di casa Savoia non facendo parte della famiglia. Se ci pensa è come se io andassi in Belgio a diffamare la famiglia reale belga solo perché ho una madre nata lì: assurdo».
Che cosa ricorda con maggiore affetto dei suoi nonni?
«Una settimana intera del 1946, vissuta a casa loro, a Napoli: durante la guerra avevo preso il tifo e per non contagiare i miei fratelli, papà e mamma mi spedirono dai nonni. Furono i giorni più divertenti della mia infanzia. Mio nonno mi regalò il mio primo cane, un bassotto di nome Gemma. Fu un’emozione grandissima. Mi sembra ancora di vederli giocare insieme, in giardino, anche se sono passati 70 anni».