La Stampa, 18 marzo 2018
Zachar Prilepin, lo scrittore che combatte nel Donbass
Testa rasata e il corpo massiccio, sembra un buttafuori (l’ha fatto per anni di notte nelle discoteche). Zachar Prilepin, 42 anni, gli occhi blu che scivolano lontano, si aggira tra ragazzi vocianti e librai di provincia: appare spaesato al Salon du livre, che omaggia la Russia. Reduce della guerra in Cecenia negli anni Novanta, dal 2014 combatte contro gli ucraini, al fianco dei secessionisti pro-russi del Donbass. Ma è anche uno dei maggiori scrittori del suo Paese, dalla prosa classica e sensibile.
Scusi, non dovrebbe essere in Russia per le elezioni ?
«Non ho mai votato. E non ho alcuna intenzione di iniziare adesso».
Però, dopo tanti anni di militanza nelPartito NazionalBolscevico di Eduard Limonov e di opposizione al Presidente, dicono che lei oggi sia un putiniano…
«Sono rimasto sempre fedele alla mia visione delle cose. È il Presidente che si è avvicinato al mio punto di vista e altre volte se ne è allontanato. Ma io non cambio».
Le vostre visioni hanno combaciato sulla questione ucraina. E su cos’altro ancora ?
«Il fatto che oggi ci sia nel mondo una sola superpotenza non è positivo. È meglio avere più poli per ottenere un equilibrio nel potere globale. Putin propone proprio questo all’Europa: evitiamo di fare del mondo una grande America».
Ma di quello che è capitato in Inghilterra cosa ne pensa ?
«Putin non ha cercato di far uccidere l’ex agente segreto, mica è pazzo. C’è troppa isteria a livello internazionale».
All’ombra del Presidente sta prosperando un’élite politico-finanziaria, che mette i propri soldi al sicuro nei Paesi europei. A lei piace questa gente?
«Odio la borghesia russa, sono un suo nemico. Anzi, spero che Putin si comporti in modo tale che tutti i Paesi europei decideranno di espellere questi ricchi russi. Saranno costretti a ritornare a casa».
La considerano un nazionalista di sinistra, è d’accordo?
«Amo la Russia ma non sono un nazionalista. In Ucraina ci sono persone che fondano l’idea di nazione a partire da criteri etnici. Io, invece, amo la complessità e la diversità. Nel battaglione che dirigo nel Donbass ci sono due italiani, due cechi, un francese, un serbo. Sono persone di sinistra, che non amano né la borghesia, né il nazionalismo».
Su di loro ha scritto un libro, «Quelli del Donbass», carico d’affetto…
«Perché sono esseri liberi. Il massimo della libertà è mettere sul piatto quello che si ha di più caro: la vita. Non sono i soldi che attirano questi soldati. Guadagnano 200 o 300 euro al mese, niente. Ma per un ideale sono pronti a ritrovarsi senza una gamba o un braccio. O a morire».
In «Il monastero», romanzo pubblicato in Italia da Voland, una storia ambientata nel primo lager creato dai bolscevichi, i personaggi non sono mai completamente buoni, né cattivi. È la sua visione della vita? Della Russia?
«Solo nei film di Hollywood ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra».
C’è chi la compara a D’Annunzio, altri a Pasolini. Le piacciono questi due paragoni italiani?
«Tantissimo, adoro entrambi. Mi piacciono le persone coraggiose e con un comportamento un po’ paradossale. La letteratura è il territorio della libertà, si può andare oltre i limiti. Quando ero giovane, ero anche appassionato di Marinetti e del futurismo».
Si ricorda della prima volta che ha ucciso combattendo ?
(esita, s’imbarazza, guarda di lato e in basso)
«Me lo ricordo benissimo ma non ne voglio parlare. Dostoevskij diceva: “Si va a fare la guerra non per uccidere ma per morire”. Aveva ragione. L’obiettivo non è uccidere qualcuno. Lo dico sempre ai miei uomini: se avete la scelta, non uccidete».