La Stampa, 19 marzo 2018
Meno firme, più esperienze. Così cambia il senso del lusso
La Quinta strada e le strade dello shopping tradizionale di New York sono cambiate molto. Un tempo erano la mecca del lusso sfrenato e dei brand irraggiungibili; poi, negli Anni 90, hanno aperto le porte ai brand più accessibili: Gap, Abercrombie, J. Crew. È stata poi la volta dei vari Zara, H&M e dei giganti del fast fashion. E oggi? Molti locali sfitti, che si alternano a Spa e fitness center. Il fenomeno non interessa solo gli immobiliaristi: è il sintomo del cambiamento (e conflitto) generazionale che sta caratterizzando la società americana, e che sta avendo un impatto dirompente sulle abitudini e i comportamenti dei consumatori.
I baby boomers
I baby boomers, nati e cresciuti nel secondo dopoguerra, sono stati i primi a beneficiare della ricchezza generata dal boom economico, e sono stati proprio loro ad alimentarlo, aumentando i consumi pro capite a livelli mai visti prima (qui nasce il «consumismo»). Sono stati anche i primi (si pensi al ’68) a definirsi come una generazione in opposizione alle precedenti, suscitando l’interesse degli esperti di marketing che studiavano metodi per attrarre l’enorme reddito disponibile riversato nei consumi. Ed ecco allora nascere i brand, i logo e la conseguente propensione a dimostrare il nuovo status di benessere (in opposizione alla generazione precedente, vittima della Grande Depressione, prima, e della II Guerra mondiale, poi) attraverso il possesso di beni più o meno voluttuari. Sono gli anni in cui nascono le grandi catene e i centri commerciali, che cercano di soddisfare una domanda di consumi che sembra inesauribile.
L’idillio viene rotto da tre recessioni che si susseguono in meno di 20 anni: la crisi dei primi Anni 90, il crollo della new Economy nel 2000 e la crisi finanziaria e immobiliare del 2008, che però, e qui sta la novità, si alternano a periodi di straordinaria crescita, trainata da cambiamenti tecnologici (in primis Internet). E sono proprio questi sbalzi l’effetto catalizzatore del passaggio dai baby boomers alla generazione chiamata «X»: tanto stabile e in constante crescita è stato il contesto in cui hanno vissuto i boomers, tanto instabile è quello della generazione che li succede. Sono gli anni delle bolle (immobiliari, azionarie, tecnologiche), ma anche del loro scoppio, ed è proprio questa alternanza di euforie e abbattimenti che caratterizza gli X: una generazione ossessionata da inquietudine e incertezza. Il benessere è ancora definito in termini di beni da possedere, ma anche chi può permettersi di spendere, preferisce farlo in modo più discreto (magari usando il nascente e-commerce), evitando logo e ostentazioni.
I Millennial
Alcuni dei cambiamenti tecnologici, tuttavia, nonostante le bolle, lasciano il segno: i social media diventano il principale motore propulsore del cambiamento che porta alla nascita dei Millennial. Non si vivono più gli alti e bassi della generazione precedente, ma si accetta l’instabilità per quello che è, la certezza dell’incertezza. Facebook ci espone, in modo molto più personale dei media tradizionali, a terrorismo, cambiamenti climatici, guerre cibernetiche e recessioni, al punto che non li consideriamo più fenomeni passeggeri, ma condizioni permanenti. E se è vero che non ci sono state recessioni negli ultimi 10 anni, è anche vero che, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, i figli di una generazione sono più poveri dei propri genitori. Ma allora non si può più esprimere la propria individualità in termini di beni posseduti o di mode seguite, perché non si dispone dei mezzi sufficienti. Quel che si ha diventa meno importante di quel che si è. E i beni lasciano il posto alle esperienze (viaggi, fitness, ristoranti, spa, ecc.). I brand di successo tra i Millennial sono quelli che offrono un punto di vista unico, un senso di appartenenza a una comunità che condivide gli stessi valori: quello che conta non è l’esclusività del brand, ma i valori che rappresenta.
I social
A differenza dei conflitti tra le generazioni precedenti, la successione tra Millennial e generazione Z è molto meno drammatica, più un’evoluzione che un conflitto. E di nuovo, il ruolo chiave lo hanno i social media: mentre i Millennial hanno vissuto la rivoluzione tecnologica, la generazione Z è nata digitale. I social media non sono usati solo per ottenere informazioni, servono anche a esprimersi: ognuno può diventare un autore, che proietta un’immagine di sé stesso, vera o presunta che sia. Ed è un’identità che non si esprime tramite quello che si indossa, ma tramite l’esperienza che si è vissuta.
Come per i Millennial, anche per la generazione Z le esperienze sono molto più rilevanti dei beni da acquistare, ma con un elemento nuovo: l’esperienza deve essere instagrammabile, altrimenti è come se non fosse avvenuta. Instagram diventa la nuova «rivista» su cui pubblicare le foto delle esperienze vissute, non quello che si possiede. Il sogno dei loro genitori era di avere un aereo privato; per la generazione Z, non c’è bisogno di averlo, basta affittarne uno per un giorno, farci una foto e metterla su Instagram: il bisogno di mostrare l’esperienza è stato soddisfatto. Così si spiega il successo di Uber e Airbnb rispetto al sogno dei genitori di avere la macchina o la casa. È la vittoria dell’influenza sull’affluenza, delle Kardashian sulla casa reale inglese.
In Italia
E il Bel Paese? Per noi italiani, spesso cresciuti con i nonni più che con i genitori, non è sempre facile capire la separazione a compartimenti stagni tra generazioni che caratterizza la società americana. Questi cambiamenti sono in atto anche da noi, ma più lentamente, proprio perché i legami tra le generazioni sono molto più stretti e le differenze nelle abitudini di acquisto meno accentuate. Essere Millennial o generazione Z sarà inizialmente un comportamento, un modus operandi; riguarderà persone di età diverse che, vivendo molto più in simbiosi rispetto a quanto accade negli Usa, si influenzeranno a vicenda. Ci vorrà tempo prima che diventi anche da noi una mera questione anagrafica.