18 marzo 2018
APPUNTI PER GAZZETTA - PUTIN PRESIDENTE PER LA QUARTA VOLTAIl politologo Valery Solovey ritiene che queste misure contro Londra «siano state rese note apposta nel giorno del silenzio elettorale» in modo che «la principale notizia prima delle elezioni fosse la prontezza del Cremlino a ribattere colpo su colpo con una politica estera di ferro»REPUBBLICA
APPUNTI PER GAZZETTA - PUTIN PRESIDENTE PER LA QUARTA VOLTA
Il politologo Valery Solovey ritiene che queste misure contro Londra «siano state rese note apposta nel giorno del silenzio elettorale» in modo che «la principale notizia prima delle elezioni fosse la prontezza del Cremlino a ribattere colpo su colpo con una politica estera di ferro»
REPUBBLICA.IT
MOSCA - Secondo gli exit-poll Putin è stato eletto presidente della Russia per la quarta volta con un risultato addirittura superiore a quel già enorme obiettivo che aveva dichiarato. Avrebbe ottenuto il 73,9 per cento dei voti. Con un tasso di popolarità sopra l’ottanta percento e circa il 70 percento nelle intenzioni di voto secondo un sondaggio realizzato dall’Istituto statale Vtsiom, Vladimir Putin (che ha votato intorno alle 10 nel suo seggio - foto) si appresta dunque ad iniziare il suo quarto mandato presidenziale, il secondo consecutivo.
· I DATI UFFICIALI
Per quanto riguarda i dati ufficiali, la Commissione elettorale russa fa sapere che con il 25 per cento di schede scrutinate Vladimir Putin è al 72,53 per cento dei voti. Al secondo posto si è piazzato il miliardario "imprenditore delle fragole" Pavel Grudinin, con il 15,44 per cento dei consensi, mentre terzo è il leader nazionalista Vladimir Zhirinovsky, con il 6,96 per cento dei voti. I primi risultati ufficiali si riferiscono alle regioni dell’Estremo Oriente del Paese e alla Siberia, i primi a chiudere i seggi. Per questo non si escludono variazioni nel prosieguo dello spoglio. Ma se il dato fosse confermato, si tratterebbe del miglior risultato della storia del presidente russo che guiderà il Cremlino i prossimi 6 anni, fino al 2024.
· L’AFFLUENZA
Ma il vero dato definitivo che a questo punto si attende è la quantità di votanti che hanno incoronato "zar Vladimir", dal momento che dal Cremlino hanno spinto in tutti i modi i cittadini a recarsi alle urne: alle 12 erano il 30 per cento. D’altra parte in un’elezione dall’esito scontato questa resta l’unica incognita.
Secondo i dati raccolti dal centro demoscopico statale Vtsiom, fa sepere la Tass citando il direttore generale del Fondo Vtsiom Konstantin Abramov, l’affluenza alle urne è stata attorno al 63,7 per cento. Il Cremlino puntava alla cosiddetta formula "70 a 70": 70 per cento di affluenza e 70 per cento di voti per Putin, la soglia necessaria a legittimare la vittoria. Salvo sorprese, secondo la Costituzione, il prossimo sarà l’ultimo mandato di Vladimir Putin che ha bisogno di questi numeri per poter rafforzare il suo potere mentre decide la prossima mossa: se liberarsi dei limiti costituzionali che gli impedirebbero di ricandidarsi nel 2024, ritagliarsi un’altra posizione di potere o scegliere un successore. Dal 2000 l’affluenza è sempre stata stabile poco sopra il 64 per cento.
rep Longread Generazione Putin: “Noi, ventenni russi abbiamo visto un solo zar” dalla nostra corrispondente ROSALBA CASTELLETTI · ELEZIONI REGOLARI
E il capo della Commissione elettorale centrale, Ella Pamfilova, ha fatto sapere che le operazioni di voto non hanno registrato gravi violazioni. Anche Il ministero dell’Interno di Mosca ha sottolineato la sostanziale regolarità del voto. Opposizione e attivisti hanno tuttavia denunciato brogli e violazioni.
· "GRAZIE A THERESA MAY"
Il portavoce della campagna elettorale di Vladimir Putin Andrei Kondrashov ha ringraziato il premier britannico Theresa May per aver aumentato l’affluenza alle urne. "L’affluenza risulta più alta del previsto dell’8-10 per cento e per questo dobbiamo ringraziare la Gran Bretagna perché ancora una volta non ha capito la mentalità della Russia: ogni volta che ci accusano di qualcosa in modo infondato il popolo russo si unisce al centro della forza e il centro della forza oggi è senz’altro Putin", ha detto Kondrashov a Interfax, allundendo al caso dell’avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal.
· UN VOTO NELL’ANNIVERSARIO DELL’ANNESSIONE DELLA CRIMEA
La data scelta per questa settima elezione presidenziale in Russia dal crollo dell’Urss non è casuale. Cade nel quarto anniversario dell’annessione della Crimea ufficialmente proclamata da Putin il 18 marzo 2014.
rep Approfondimento Kaliningrad, la città russa che preferisce l’Europa a Putin dalla nostra inviata ROSALBA CASTELLETTI
· I SETTE ’NANI’ (PIÙ UNA DONNA) ANTI-PUTIN
Sono sette uomini e una donna a correre per le presidenziali. Le uniche due sorprese della campagna elettorale sono state la candidatura di Pavel Grudinin e di Ksenija Sobcjak. Grudinin è il volto nuovo del Partito comunista, finora sempre rappresentato alle urne da Ghennadj Zjuganov. Strano caso di "comunista capitalista", è soprannominato "il re delle fragole", principale prodotto della sua azienda agricola. Sobcjak è l’unica donna, conduttrice televisiva e presunta figlioccia del presidente al suo debutto in politica.
Ci sono due veterani: Vladimir Zhirinovskij, il nazionalista leader del Partito liberaldemocratico, alla sua sesta candidatura, e il liberale Grigorij Javlinskij, a capo di Jabloko, che corre per la terza volta. Per i comunisti corre anche Maksim Surajkin, nominato da un partito alternativo al Pc parlamentare, Comunisti di Russia. Ci sono inoltre Boris Titov, l’ombudsman degli imprenditori, e il nazionalista Serghej Bubarin.
Un solo candidato si è presentato come indipendente: Vladimir Putin. Grande assente: Aleksej Navalnyj, escluso dalla corsa per le sue precedenti condanne penali, che invita al boicottaggio.
dragosei sul corriere di stamattina
Fabrizio Dragosei
MOSCA I russi vanno oggi alle urne per assicurare con una abbondante maggioranza un quarto mandato a Vladimir Putin, il presidente che non ha nemmeno bisogno di chiedere per rimanere altri sei anni al Cremlino e che, in effetti, si è guardato bene dal fare campagna elettorale. Per lui hanno parlato i «fatti» che dovrebbero spingere gli elettori, almeno secondo alcuni dei suoi, a mobilitarsi in massa per garantire il necessario consenso al leader di un Paese «sotto assedio». E gli ultimi avvenimenti sembrano giungere apposta per rafforzare questa tesi.
Ieri Mosca ha risposto all’espulsione di diplomatici decisa da Londra a seguito dell’avvelenamento dell’ex spia russa Skripal su suolo britannico. Fuori 23 diplomatici entro una settimana, chiusura del British Council, lo storico istituto culturale e del consolato a San Pietroburgo. Se poi il governo della May minaccia ulteriori misure, quello di Putin fa sapere che ribatterà colpo su colpo.
Guerra di spie, accuse ai servizi russi di interferenza nella vita politica degli Stati Uniti e dei Paesi europei, nuova corsa agli armamenti, con razzi intercettori Nato alle frontiere russe e missili a breve gittata installati nel territorio di Kaliningrad, incastonato all’interno della Ue. Poi l’annuncio russo di nuove mirabolanti armi supersoniche. Inevitabile dunque che il voto alle presidenziali assuma una fortissima valenza di politica internazionale. E, non a caso, la data è stata spostata dal 4 al 18 per farla coincidere col giorno «glorioso» dell’annessione della Crimea del 2014.
Ma tutto questo basterà per convincere un’alta percentuale dei 111 milioni di elettori a uscire di casa? Difficile. Per questo da settimane tutte le strutture del potere sono state mobilitate per martellare i singoli cittadini al di sopra dei 18 anni, compresi quelli che voteranno oggi per la prima volta (sono 7 milioni) e che non hanno conosciuto altra Russia che quella guidata da Vladimir Vladimirovich. Cartelli affissi nelle banche, nella metropolitana, negli uffici e nelle fabbriche: «Andate a votare!». In tutta la Russia, compresa la Crimea che si esprimerà certamente per Putin in maniera «bulgara», come la Cecenia e le altre repubbliche gestite da fedelissimi del presidente. Ma la vera battaglia si gioca nel resto del Paese e nelle grandi città. Ecco allora sms generici inviati a tutti e altri messaggi personalizzati, con tanto di nome e cognome, arrivati a molti russi che li hanno visti come una indebita pressione («Sappiamo chi sei e dove sei», sembrano dire). Poi «calorosi» consigli a studenti, dipendenti statali, militari e perfino alle puerpere. Infine la promessa di far trovare nelle scuole e nelle fabbriche dove si vota banchetti con in vendita salami prelibati e pasticci di carne e cipolla a prezzi stracciati, esattamente come avveniva ai tempi dell’Urss.
Adesso come allora, infatti, la gente pensa che la sua scheda sarà inutile, visto che tutto «è già stato deciso». Il presidente uscente sarà rieletto al primo turno; secondo, con grande distacco, dovrebbe arrivare il candidato comunista Grudinin che, stranamente, è un «capitalista», padrone dell’ex sovkoz Lenin (azienda agricola), pescato con chili di lingotti d’oro e conti in una banca svizzera. Poi tutti gli altri, dal vecchio attrezzo della politica, Zhirinovskij, istrionico ultra-nazionalista, alla giovane Kseniya Sobchak.
Non ammesso al voto il più popolare degli oppositori, Aleksej Navalny che ha invitato a boicottare la consultazione. Anche per questo sarà fondamentale per Putin la percentuale di votanti: tutti quelli che mancheranno potranno essere etichettati come oppositori. Nel 2012 andò alle urne il 65,3 per cento degli elettori e Putin prese il 63,6%. Vale a dire il 41,5 per cento dei voti degli aventi diritto. Il Cremlino mira oggi a salire sopra il 70%. Se a quel punto il presidente uscente ottenesse il 73%, per il quale i suoi fedelissimi lavorano, riporterebbe il consenso del 51,1% dell’elettorato. Una piena legittimazione, anche di fronte ai suoi avversari internazionali.
BATTISTINI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
Le colline nere le vedi subito, propilei di polvere sulla strada principale: neanche la neve e la propaganda riescono a coprirle. Scorie metalliche alte cinquanta metri, che brillano sinistre nell’ultimo sole d’inverno. Stanno lì dai tempi di Stalin e servono ai bambini per arrampicarsi, agli adulti per crepare. Chi nasce a Karabash sa già come si gioca con la morte: respirando biossido di zolfo e anidride solforosa, bevendo le acque rossastre e senza pesci dello Sjerebro, mangiando miele d’api malate e uova di galline tossiche e carni di maiali polverosi. Le ghiandole marce, i polmoni ingolfati, il sangue sballato.
Karabash è il buco nero della Russia, perché da un secolo s’estrae qualunque minerale — oro, argento, rame, zinco, uranio — e dalla Seconda guerra mondiale si produce qualunque veleno: il plutonio per la guerra fredda, le pipeline per il petrolio iraniano e il gas di Nord Stream, l’acciaio per le bombe in Siria. La città carrarmato, la chiamano i russi. L’Onu certificò che questo era uno dei posti più inquinati del mondo e un astronauta lo confermò: se dallo spazio si vede una specie di cratere nucleare in mezzo agli Urali, è Karabash.
Le betulle sono nane e pure gli umani non crescono tanto. La mortalità infantile è sempre stata il doppio della media mondiale. La natalità, dimezzata. Il marito di Daria la bibliotecaria lavora al kombinat dell’acciaio e dice che «non c’è protezione che aiuti, rincaso sempre con la faccia verde, da cinque anni ho eczemi dappertutto, tosse, gli occhi gialli». Tatiana Petrov è andata a studiare a Chelyabinsk, due ore di macchina, e torna a Karabash solo per il fidanzato: «Mio papà è nato e morto qui, ho sempre visto la neve grigia. Solo negli ultimi anni è di nuovo bianca, ma è polvere nascosta sotto il tappeto: finite le gelate, ricompaiono le schifezze di sempre».
O Putin o morte? No: sia Putin che la morte. Avvelenati, non inveleniti, qui sono tutti con lui: 11mila abitanti e 66,7 per cento di putiniani alle ultime elezioni, dicono i sondaggi, con un probabilissimo 75 a questo giro. «Ti mando a Karabash», è la minaccia che ogni capufficio russo fa al sottoposto ribelle. Difficile immaginare luogo tanto disgraziato. Capitale del carbone, fonderia di tutte le Russie. E non bastasse l’inquinamento, a pochi chilometri c’è l’impianto nucleare di Mayak e la flora bruciata dal più grave disastro della storia dopo Chernobyl e Fukushima. Da queste parti, anno 2013, è dove s’abbatté l’unico meteorite dell’ultimo secolo: venti metri di diametro, pesante come la Torre Eiffel, un’esplosione in cielo trenta volte quella di Hiroshima, 1.500 feriti.
Cancro&sfortuna. E allora perché stare con lo Zar? «Perché ci ha capiti — spiega Ludmila Biruyova, 71 anni, che vende immaginette sacre —. È stato l’unico ad ammettere che qui moriamo. E ha stanziato fondi, senza chiudere le fabbriche». Quindici anni fa, gli abitanti di Karabash scrissero una lettera aperta a Putin: o ci aiuti, o non ti votiamo. Zio Vlad a modo suo rispose: senza toccare gli impianti, ma facendo piovere soldi. Negli ultimi tempi, la storica fonderia della zona (la Coper, così potente da addobbare gli alberi di Natale di Karabash coi led del suo logo, invece che con le palline e i festoni) ha finanziato palasport, supermarket, teatri, cinema, asili, giardinetti per bambini, s’è fatta ricevere all’Onu, ha promosso premi per progetti sociali e filantropici, ha perfino costruito una nuova cattedrale ortodossa…
«Solo i nemici della Russia ci descrivono come un posto terribile — dà per sicuro il sindaco Oleg Budanov, 36 anni, il ritratto di Putin alle spalle —, le cose oggi vanno molto meglio. L’inquinamento di Karabash appartiene agli anni Novanta. Oggi, siamo più o meno come il resto della Russia. E abbiamo chiesto all’Unesco di proclamarci parco ambientale mondiale». Vi hanno risposto? «Non ancora…».
È un po’ come a Taranto con l’Ilva, meglio morire col lavoro che vivere senza: la disoccupazione è al 4 per cento, fra le più basse del Paese. «Lo stipendio è l’unica ragione che spinge a sostenere Putin — dice Aleksey Tabalov, oppositore locale del partito di Navalny —. Quando Mosca provò a risanare davvero, qui la situazione migliorò. Ma la gente perse il posto. E così è meglio negare il problema, fare propaganda, costruire chiese e cinema. Se c’è un problema, troppe proteste, alla fine basta rimuovere i governatori locali…».
Lo Zar è venuto in visita un paio di giorni: «Ma mentre in pubblico parlava con uno di noi ambientalisti — racconta Boris Zolotarevsky, 20 anni —, di nascosto faceva arrestare tutti gli altri». E mentre prometteva meno veleni, avviava la costruzione d’una nuova fabbrica Coper a Tomino, che sta cinquanta chilometri più in là: «Il manager della società è un suo carissimo amico, e Putin non lo mollerà mai». Si picchia duro. E se serve, anche sotto la cintura: per convincere il mondo che Karabash non è più il buco nero, a far da testimonial hanno invitato Mike Tyson. «Bel posto», gli han fatto dire: «Ci aprirò una palestra.
stefano montefiori intervista Hélène Carrère d’Enacausse
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI «Oggi Putin sarà rieletto perché la maggioranza dei russi condivide la sua visione. E la crisi con Mosca sembra una risposta allo smarrimento europeo: c’è grande nervosismo, il paesaggio è cambiato, siamo in una fase di transizione interessante. Oltre alla Brexit i Paesi dell’Est vogliono meno integrazione, anche quelli del Nord guidati dall’Olanda frenano, e le elezioni italiane sono state vinte da partiti che difendono la sovranità nazionale. Mobilitarsi contro la Russia può dare la sensazione di recuperare una certa unità, si danno tutte le colpe a Putin e si annunciano sanzioni. E allora? E dopo?».
Negli appartamenti dell’Académie Française, davanti alla Senna, la grande storica Hélène Carrère d’Encausse parla dell’oggetto delle ricerche di una vita, la Russia e i suoi rapporti con l’Europa. Ha scritto decine di libri tra cui biografie di Caterina II, Lenin e Stalin, nel 1978 ha pronosticato la fine dell’Unione sovietica sotto la rivolta delle nazioni nel celebre L’impero spaccato e pochi mesi fa, a 88 anni, ha pubblicato Il generale De Gaulle e la Russia (Fayard). «Immortale» di Francia dal 1990 e prima donna a essere eletta «Segretario perpetuo» (al maschile, così preferisce) dell’Accademia, Hélène Carrère d’Encausse è una delle poche figure intellettuali di peso che, in Francia e in Europa, chiedono di trattare Putin con più comprensione.
Lo scontro comincia con l’avvelenamento in Inghilterra di un oppositore.
«L’Unione sovietica aveva una tradizione di avvelenamenti, le storie di agenti doppi o tripli tra Mosca e Londra sono un classico, John Le Carré le racconta molto bene. Anche per questo forse i britannici hanno reagito in modo così deciso. Comprendo la loro sensibilità, ma nel passato anche recente ci sono stati altri casi. Mi domando perché aprire una crisi grave adesso».
Non può essere che Putin abbia voluto testare le reazioni europee alla vigilia delle elezioni in Russia?
«I suoi consensi cresceranno, con ogni probabilità, ma Putin non ne aveva alcun bisogno perché le elezioni le avrebbe vinte comunque, a meno di sorprese oggi impensabili. Vedo un grande nervosismo europeo, una escalation mediatica che i politici assecondano».
Perché secondo lei c’entra il voto in Italia, con la vittoria di partiti in modi e gradi diversi favorevoli a Putin?
«Esiste un blocco conservatore in Europa spaventato da qualsiasi cambiamento e dalla minima mossa laterale. Soprattutto se questa è compiuta da un Paese fondatore come l’Italia. Il voto italiano è interessante perché mostra una volontà di sovranità. I popoli dicono “malgrado tutto noi esistiamo, e non solo nel disegno che viene preparato per noi”. È una delle lezioni dell’inizio del XXI secolo».
Questo incoraggia la visione nazionalista di Putin?
«Probabilmente sì. È chiaro che Putin sta pesando tutto, vede la linea “America First” di Trump e il momento di pausa europeo. Nel discorso del 1° marzo ha un po’ ripetuto quel che aveva detto a Monaco nel 2007: noi siamo russi ed è il nostro interesse nazionale a contare. Nei primi anni Duemila Putin pensava a una democrazia all’occidentale. Tutto è cambiato con le rivoluzioni “colorate” in Georgia e Ucraina. Ha capito che doveva difendere la potenza russa e una via autonoma».
Putin gioca sulla divisione politica nata in tanti Paesi tra nazionalisti contro globalizzati, società chiusa contro società aperta?
«Sì anche se, in Francia almeno, abbiamo l’abitudine di bollare i nazionalisti come “populisti”, termine che non vuole dire niente se non che non ci piacciono. Tanti Paesi ripensano a quanta sovranità preservare. Ma siamo fissati sui populisti e su Putin il cattivo».
A capo di un regime autocratico, o no?
«Putin è convinto che la stabilità politica intorno a un capo sia fondamentale. Rivendica un potere forte, in politica interna e estera. Si può amarlo o no. È coerente, anche in Medio Oriente».
E le violazioni dei diritti umani, in particolare di quelli degli omosessuali?
«Molti russi siano d’accordo con Putin sul fatto che la loro società non debba scivolare nel modello individualista occidentale, al quale associano i diritti dell’uomo. L’epoca sovietica ha formato l’abitudine a un inquadramento rigoroso, e Putin ha capito che i russi chiedono stabilità, regole, valori tradizionali anche nella famiglia».
Come dovrebbero comportarsi gli europei?
«Forse abbandonare la pretesa di spiegare “ecco, questa è la democrazia, si fa così”. Anche perché il mondo non li sta ascoltando. Ci sono tanti modelli possibili. Tutto l’Est europeo dice che la democrazia non è questa, il presidente cinese Xi Jinping segue un’altra strada, e le elezioni italiane sono un segnale importante. Un popolo di grande civiltà, che ha fondato l’Europa, adesso dice che bisogna fermarsi e ripensare l’integrazione. Nel XXI secolo il mondo è cambiato, e che cos’è l’Europa? Non molto. Non abbiamo lo stesso modello neanche tra Italia, Germania o Francia. Uno sforzo di riflessione si impone».
PEZZO DI GARIMBERTI SU REPUBBLICA DI OGGI
PAOLO GARIMBERTI Nella sua ossessiva opera di clonazione dell’Urss, che non ha mai nascosto di rimpiangere definendo la sua fine “una tragedia della Storia”, l’ex colonnello del Kgb Vladimir Putin ha creato un modello politico, che riproduce il sistema di gestione del potere del Pcus, il partito unico dei tempi sovietici. Le elezioni di oggi diventano così un referendum su quello che è stato definito il “putinismo”: un potere assoluto mascherato da democrazia pluralista, la “demokratura”, crasi tra democrazia e dittatura. Il vincitore del voto di oggi è largamente scontato in mancanza di alternative credibili (l’unica con un seguito popolare, il blogger Aleksej Navalnyj è stato escluso per precedenti penali molto pretestuosi). La vera incertezza per l’esito del referendum riguarda l’astensione. Alle elezioni parlamentari del 2016 l’affluenza fu inferiore al 48 percento. Un’astensione così alta per il presidente sarebbe una bocciatura solenne, quasi un affronto. Tanto più che oggi vota una generazione che non ha conosciuto altro leader politico all’infuori di lui: i nati nel 2000, quando subentrò a Eltsin al Cremlino. L’Economist li ha chiamati “the Puteens”. È anche per prendere i loro voti (potenzialmente più attratti dall’astensionismo predicato su Internet da Navalnyj) che Putin si è separato dal suo partito di riferimento, Russia Unita, presentandosi da indipendente. Secondo i sondaggi più recenti soltanto il 19 percento dei russi crede nei partiti politici, mentre il 75 percento ha piena fiducia nel presidente. Putin conta di trasformare i sondaggi in voti per legittimare il suo modello di potere e perpetuarlo oltre la sua sopravvivenza politica (se non sarà cambiata la costituzione questo sarà il suo ultimo mandato, fino al 2024). Per questo ha ricreato una sorta di Politbjuro. Ma ai tempi dell’Urss contavano l’esperienza nel partito e la clientela politica. Quello di Putin è un assemblaggio di boiardi di Stato, dove conta esclusivamente l’appartenenza ai clan del potere (il più solido e rappresentato è quello dei “siloviki”, gli uomini della forza provenienti dai servizi o dalle forze armate, come il ministro della Difesa Sergej Shoigu, inseparabile compagno di Putin in partite di hockey su ghiaccio). Oppure l’amicizia personale e di affari con il presidente: come i fratelli Rotenberg, il violoncellista Roldugin, emerso nei Panama Papers come titolare di un patrimonio nei paradisi fiscali, o Igor Shuvalov, vice primo ministro, nome di spicco di quella Londongrad di cui si è parlato in questo giorni per la vicenda delle spie. Il perno di questo sistema è Igor Sechin, ex capo di gabinetto di Putin e ora a capo di Rosneft, il gigante dell’energia che produce più barili di petrolio al giorno dell’intera produzione dell’Iraq ed è dunque un fondamentale asset economico per il Cremlino. È stato Sechin (il cui patrimonio personale in azioni Rosneft è valutato 83 milioni di dollari) a distruggere il potere degli oligarchi proliferati negli anni di Eltsin. Come ha scritto un ex ambasciatore americano a Mosca è stato capace di «confiscare e amalgamare i loro asset in società di Stato controllate dai siloviki». È la sorte che è toccata a Mikhail Khodorkovskij (Yukos), Vladimir Yevtushenkov (Bashneft), petrolieri finiti agli arresti, le cui società sono state confiscate e poi acquistate proprio da Rosneft. L’ultimo oppositore eliminato con metodi giudiziari è stato il ministro dell’economia Aleksej Ulyukaev, finito in trappola per corruzione proprio nell’ufficio di Sechin. Ma in un Paese immenso come la Russia il controllo del potere centrale non basta. Perciò lo zar ha avviato un gigantesco ricambio generazionale tra i governatori delle regioni e delle province: negli ultimi tre anni ne ha cambiati 36 su 85 e ben 20 hanno meno di cinquant’anni (tra cui l’ex guardia del corpo del presidente, Aleksej Dyumin, governatore di Tula). Oltre a essere giovani, i nuovi sono tutti figli di amici di Putin o di amici dei suoi amici più fidati. Putin sa che non può essere presidente a vita, come Xi Jinping in Cina. Ma vuole continuare a controllare la Russia anche quando non sarà più al Cremlino. Per questo prova a legittimare il “putinismo” attraverso il voto popolare. E il successo di questo referendum (come ha capito Navalnyj che ha fatto campagna per l’astensione) non dipende da quanti voteranno per lui. Ma da quanti andranno a votare.MOLINARI SULLA STAMPA
Leader incontrastato in patria, spietato contro gli avversari interni ed abile stratega nel portare scompiglio in Occidente, Vladimir Putin affronta oggi le urne sicuro di una rielezione alla presidenza che lo proietta nella sfida più difficile: riassegnare alla Russia un ruolo stabile di potenza globale.
Aver indetto le elezioni il 18 marzo, quarto anniversario dell’annessione della Crimea strappata all’Ucraina, serve a celebrare la rinascita dell’orgoglio nazionalista russo che ha finora distinto la sua presidenza. Arrivato al Cremlino nel 2000, ereditando da Boris Eltsin una Federazione russa assediata dall’allargamento della Nato ad Est e umiliata dagli interventi militari guidati dagli Usa nel Golfo e nei Balcani, Putin è riuscito in questi 18 anni - complice la breve stagione del fidato Dmitry Medvedev al Cremlino - a sorprendere più volte l’Occidente fino a metterlo sulla difensiva.
Gli interventi militari in Georgia, Ucraina e Siria, la corsa al riarmo convenzionale e nucleare, la «guerra ibrida» teorizzata da Valery Gerasimov e le incursioni nel cyberspazio per indebolire dal di dentro un Occidente segnato dalle crisi, hanno consentito alla Russia di riacquistare terreno strategico in Europa, Medio Oriente ed Africa durante la presidenza Obama e di conservarlo durante quella di Donald Trump. A dispetto delle sanzioni economiche Usa-Ue e di crisi aspre come quella in corso con la Gran Bretagna sul possibile uso di gas nervino per uccidere un’ex spia assai scomoda.
Tali e tanti risultati hanno trasformato Putin nel protagonista del riscatto russo dallo smacco della Guerra Fredda, nel leader più temuto e osteggiato, ammirato e corteggiato sulla scena internazionale. Ma è lui per primo a rendersi conto che si tratta di un risultato parziale perché la sua Russia è un gigante vulnerabile. Un Pil inferiore a quello dell’Italia, la popolazione in costante calo demografico e l’assenza di leader digitali paragonabili ad Amazon o Alibaba, descrivono una fragilità interna che costituisce il primo e più serio ostacolo per il Putin rieletto. Sicuro di restare al Cremlino almeno fino al 2024 – diventando il leader russo più longevo dai tempi di Josif Stalin – Putin deve riuscire a pianificare il dopo-Putin ovvero far crescere la propria nazione per consentirle di affrontare le sfide del nuovo secolo. Qualche accenno in proposito lo ha già fatto negli ultimi tempi, indicando nell’intelligenza artificiale «il terreno decisivo per la leadership del futuro» e guardando ai «siloviki» – l’establishment della sicurezza – in cerca della necessaria capacità di produrre innovazione tecnologica nei settori più diversi. Volersi distinguere in maniera decisiva dagli altri leader dell’Urss-Russia, per Putin significa riuscire dove fallirono Leonid Breznev e Mikhail Gorbaciov: avere degli eredi capaci di affrontare, e vincere, le sfide della generazione successiva. Per questo a Mosca c’è chi assicura che Putin, affrontando una sorta di sfida personale con la Storia russa post-rivoluzionaria, non vorrà solo crearsi uno status ad hoc nel lungo termine – dal precedente cinese di Xi Jingping titolare di un mandato a vita, a quello turco di Recep Tayyip Erdogan, ideatore di una Costituzione con poteri modellati su se stesso – ma punterà su economia e tecnologie per entrare a testa alta nel duello per la leadership globale che vede al momento due soli contendenti: Stati Uniti e Cina.
Insomma, dopo essere riuscito a indebolire l’Occidente grazie alla «guerra ibrida» ed a creare un nuovo legame con Pechino nello scacchiere dell’Eurasia, Putin avrà a disposizione i prossimi sei anni per tentare di sorpassare entrambi lì dove si sentono imbattibili: sulla creazione di prosperità e innovazione. Riuscendo nell’impresa può diventare il modernizzatore della nazione più grande del Pianeta, fallendo rischia invece di finire come l’anziano dittatore africano Mugabe, travolto dalle faide di un potere che lui stesso aveva creato.