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 2018  marzo 18 Domenica calendario

Il gender sotto la lente dei linguisti

La schiacciante maggioranza dei lettori di queste pagine non affronterà mai direttamente il volume Gender from Latin to Romance (History, Geography, Typology), che Michele Loporcaro ha pubblicato per i prestigiosi tipi di Oxford University Press. Non lo leggerà, sebbene almeno due parole del titolo paiano rinviare a nozioni ben presenti nel discorso quotidiano. In un caso – Romance, che non significa ovviamente “storia d’amore”, ma “lingue romanze”, ossia neolatine – si tratta solo di una divertente illusione ottica. Nell’altro – Gender, parola divenuta oggi cruciale – lo scarto è più interessante. 
Il libro, lo si sarà capito, parla di genere grammaticale, e lo fa indagando le vicende che quest’ambito della morfologia di nomi, aggettivi, pronomi e articoli ha conosciuto nella transizione dal latino alla miriade di lingue e di dialetti che ne rappresentano la diretta filiazione attuale. Sono lingue e dialetti nei quali si usa comunemente distinguere due generi grammaticali – maschile e femminile – che sembrano rinviare a una visione rigidamente bipartita dalle possibili, e ben avventurose, implicazioni psicologiche e culturali. Laddove, come è noto, il latino – al pari del greco e di varie ben note lingue germaniche – pare distinguere altrettanto chiaramente tre generi grammaticali che fin nei nomi (maschile, femminile e neutro cioè “né l’uno né l’altro”, con designazione invero ambigua e fuorviante) funzionano altrimenti.
Un’indagine sui tragitti attraverso i quali dal sistema antico si è arrivati a quelli moderni potrebbe suggerire al lettore un ipotetico tracciato che, quasi prendendo a pretesto le strutture grammaticali delle lingue, si allarghi a indagare le possibili matrici storiche, culturali e sociologiche del genere – anzi del gender –, aprendo una breccia insolita (ma forse abusiva) nel grande dibattito contemporaneo su identità e coscienza di genere. Ma chi nutrisse simili speranze si fermerebbe dopo poche pagine, messo in guardia da un avvertimento chiaro e onesto, che tocca il nucleo stesso dell’idea che Michele Loporcaro (professore di linguistica romanza a Zurigo) ha del proprio lavoro. È per tentare di spiegare quest’idea che val la pena di raggiungere alcuni dei molti verosimili non-lettori del volume.
Non è necessariamente sbagliato, spiega Loporcaro, interrogarsi sui possibili rapporti tra il modo in cui la lingua costruisce le sue strutture e il modo in cui sono organizzate la società e in generale le culture umane. Ma nell’ottica del linguista che intenda spiegare i motivi per cui in alcune varietà le parole corrispondenti a moglie, vergine, sorella sono femminili al singolare e maschili al plurale (suona esotico? Eppure è così ad esempio in molti dialetti italiani del nord), o quelli per cui il neutro latino mare ha dato un femminile in francese (la mer) e un maschile in italiano (il mare), è utile adottare un principio generale di cui l’autore è profondamente convinto. 
È l’idea, ricca di conseguenze, che la lingua e le sue strutture fonetiche, morfologiche, sintattiche, insomma grammaticali, vadano spiegate in prima istanza ricostruendone la logica interna e prescidendo fin dove possibile dall’interferenza di fattori esterni, psicologici e culturali. Posizione discutibile, ma legittima, che si riallaccia a una tradizione illustre non solo della linguistica, ma della cultura europea dell’ultimo secolo e mezzo almeno. Posizione, anche, utilissima a costruire in quest’ambito un solido bastione contro i pericoli complementari dell’uso della lingua in servizio dell’ideologia e dell’abuso dell’ideologia per spiegare fatti di lingua che nascono e si sviluppano tutti dentro la lingua stessa. 
Esiste, e Loporcaro lo documenta qui in modo così serrato da risultare a tratti implacabile, una coerente sistematicità del mutamento linguistico. Cioè del muoversi della lingua attraverso il tempo. Si può puntualmente ricostruire, anzi, una tendenza alla continua ricreazione degli equilibri grammaticali che agisce – si ipotizza qui – volgendo le spalle a tutto ciò che è esterno al linguaggio in quanto facoltà del parlante. Essa funziona in un modo ben più complesso e raffinato di quanto talora siamo portati a credere se guardiamo alla lingua inforcando occhiali diversi e meno professionali di quelli del linguista.
Per esempio, è documentabile ancor oggi, e vivo e operante in vari dialetti dell’Italia centromeridionale, un processo di riorganizzazione di quelle classi d’accordo morfologico che comunemente chiamiamo generi, per cui lo schema “a tre colonne” del latino (maschile, femminile e neutro) si è in realtà non semplificato, ma rifranto in sistemi a quattro generi grammaticali. Altro che riduzione. Altro che semplice abbandono già antico del neutro, del quale dacché linguistica è linguistica s’è parlato con pigro automatismo. Il terzo genere non è certo morto sul colpo. E ha lasciato tracce capaci di rianimarsi, resistendo alla pressione dei due generi egemonici (due, non uno).
Per questa via, i generi possono essere due, tre, quattro (o, in quanto appunto classi di accordo, anche di più). Così, l’antico neuter “né l’uno né l’altro” del latino può riorganizzarsi in alcuni dialetti specializzandosi nella designazione di collettivi, oppure in tipi “alternanti” non troppo diversi dai cosiddetti relitti del neutro che osserviamo anche in italiano ad esempio per nomi di parti del corpo (braccio / braccia, ciglio / ciglia, membro / membra, eccetera), dei quali si dà qui una lettura completamente rinnovata. Non è questo il luogo per discendere in dettagli più minuti, né (purtroppo) per seguire l’autore nelle sue peregrinazioni attraverso lingue vicine (come i dialetti della Penisola che egli conosce, per indagine diretta e capillare, più a fondo forse di chiunque altro oggi in Italia) e meno vicine, come il romeno o l’asturiano che danno occasione ad alcune delle pagine più convincenti del libro. 
Qualche lezione non solo linguistica si potrà trarre scoprendo che inerpicarsi fino a Ripatransone (Ascoli Piceno) può servire per rintracciare sistemi insospettabilmente complessi di organizzazione del genere. E qualche riflessione non banale potrà discendere da uno degli esperimenti più arditi discussi nel libro: quello che va a indagare le tracce della riorganizzazione dei generi grammaticali in corso nel dialetto molisano di Agnone rivolgendosi non ai suoi usi e costumi o all’organizzazione dei suoi matrimoni, ma alle tracce lasciate dalle strategie d’accordo grammaticale nel cervello di parlanti vecchi e giovani, rilevate con avveniristiche tecniche di neuroimaging. 
Non è nemmeno il luogo per dare puntuale conto dell’altra ragione per cui il volume – pur essendo uno splendido volume – resisterà tenacemente alla lettura di chi fosse interessato al massimo a sapere se si può usare il femminile ministra. Un tema che è inutile venire a cercare qui. In realtà, è il modo in cui Loporcaro presenta le sue tesi: è questo suo stile a fare del libro una scalata alpinistica di sesto grado superiore. Ottimo divulgatore quando vuole (anni fa ha scritto un saggio pieno di passione civile sulla Retorica senza lumi dei mass media italiani, Laterza), Loporcaro dà prova qui di un tipo di procedere argomentativo così serrato, fittamente documentato e logicamente coeso da pretendere un’attenzione assoluta, e da scoraggiare del tutto i fruitori abituali della prosa anche scientifica più indulgente. Non c’è spazio qui per distrazione, né per digressioni o sconti. C’è spazio solo per una linguistica che si conviene chiamare romanza perché rivolta all’eredità vivente del latino, ma che ai lettori disponibili al cimento racconta qualcosa di ben più ampio su come funziona, più che questa o quella lingua, il linguaggio umano nel suo complesso. È per inseguirne la strenua logica interna che vale la pena di faticare sui percorsi indicati qui verso un territorio non solo neolatino. Forse la migliore linguistica generale oggi disponibile.

(Michele Loporcaro, Gender from Latin to Romance. History, Geography, Typology, Oxford, Oxford University Press, 2018, pagg. 388, £ 80,00).