17 marzo 2018
Decine di migliaia di persone hanno lasciato e stanno lasciando Ghouta orientale e Afrin, città del nord della Siria sotto attacco rispettivamente dell’esercito siriano e di quello turco
Decine di migliaia di persone hanno lasciato e stanno lasciando Ghouta orientale e Afrin, città del nord della Siria sotto attacco rispettivamente dell’esercito siriano e di quello turco. Secondo l’ONU, circa 16mila sono partite da Ghouta orientale, l’unica area vicina a Damasco ancora sotto il controllo dei ribelli siriani ma da settimane attaccata intensamente dalle forze governative del presidente Bashar al Assad e i suoi alleati. Altre 50mila hanno lasciato Afrin, città del nord della Siria controllata dai curdi ma obiettivo dell’ultima campagna militare siriana della Turchia, iniziata due mesi fa.
More than 150,000 civilians have fled the Syrian city of Afrin to escape a Turkish-led offensive against a Kurdish militia https://t.co/hWF5IBTdTB pic.twitter.com/O4BDvpUgRM
— AFP news agency (@AFP) March 17, 2018
A essersi aggravata negli ultimi giorni è soprattutto la situazione ad Afrin: la Turchia ha detto ieri di avere circondato la città, mentre migliaia di persone erano ancora in fila per uscire dall’unica via di fuga rimasta aperta, temendo un imminente bombardamento. Venerdì i curdi hanno detto che l’unico ospedale operativo della città è stato colpito dalle bombe degli aerei turchi, uccidendo almeno 16 persone tra cui alcuni bambini. In tutto, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, sono morte almeno 43 persone nei bombardamenti di venerdì.
Civili dopo aver lasciato Afrin, sullo sfondo. (GEORGE OURFALIAN/AFP/Getty Images)
La Turchia vuole prendere Afrin per indebolire i curdi siriani, che il presidente turco Recep Tayyp Erdogan accusa di avere legami profondi con i curdi turchi del PKK, organizzazione che il governo turco considera terrorista. Tra le migliaia di curdi che stanno lasciando la città per paura dei bombardamenti c’è la preoccupazione che non potranno tornare a casa, una volta che Afrin sarà controllata dai turchi. La Turchia vorrebbe infatti creare una specie di “zona cuscinetto” oltre il suo confine meridionale, in Siria, sottraendolo al territorio attualmente controllato dai curdi.
Families continue to flee #Afrin as #Turkey and its backed forces carry out the olive branch operation. pic.twitter.com/OnIiTdch9X
— Rudaw English (@RudawEnglish) March 17, 2018
A Ghouta orientale la situazione è gravissima da settimane: da quando è iniziata l’offensiva militare del regime di Assad i civili uccisi sono stati circa 1.250, su una popolazione stimata di 400mila persone. Gli attacchi sono continuati quasi incessantemente nonostante la tregua di un mese approvata dall’ONU e tregue più limitate di poche ore al giorno promosse dalla Russia. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’organizzazione con sede a Londra molto citata dai media internazionali, soltanto venerdì 46 civili, tra cui sei bambini, sono morti nei bombardamenti dell’esercito siriano e dei suoi alleati nel quartiere di Kafr Batna. Non era però mai successo che così tante persone lasciassero la città come negli ultimi giorni: soltanto venerdì sono state circa 4000, attraverso corridoi umanitari controllati dal governo siriano.
In Siria, quello che doveva essere un mese di tregua si è rivelato invece il più mortifero di sempre. E i civili della Ghouta orientale e di Afrin, la città del nord-ovest sotto attacco dell’esercito turco, stanno fuggendo in massa. Famiglie con figli piccoli, malati e anziani trasportati in carrozzina o in una carriola, cercano di mettersi in salvo dai combattimenti. Secondo le Nazioni Unite, solo nella Ghouta orientale 40.000 civili, stremati dalla fame e sopravvissuti ad un mese di continui bombardamenti, hanno abbandonato quel che resta delle loro case.
Una fiumana interminabile si dirige verso i varchi aperti dall’esercito siriano che ormai controlla oltre la metà dell’enclave ribelle a pochi chilometri da Damasco. Portano con sé lo stretto necessario, i ricordi di una vita racchiusi in una busta di plastica; ad attenderli un futuro incerto da sfollati. E c’è anche chi nel proprio bagaglio ha messo il suo bene più prezioso, il figlio piccolo. L’immagine di un bambino assonnato dentro una valigia di cuoio portata dal padre è il simbolo dell’esodo della popolazione della Ghouta.
Se migliaia di persone stanno scappando, altrettante rimangono ancora intrappolate a Douma e nelle altre città bersaglio dei raid incessanti dell’aviazione siriana. Solo nella giornata di ieri, sono state 81 le vittime tra i civili. Il saldo più pesante a Kafr Batna dove hanno perso la vita più di 60 persone.
E pesanti bombardamenti sulle città controllate dagli insorti sono in corso anche oggi e già si registrano le prime vittime. Dal 18 febbraio, l’offensiva dell’esercito di Assad ha provocato oltre 1.300 morti, tra cui centinaia di donne e bambini. I medici locali riferiscono che, a causa della mancanza di farmaci e medicine, sono costretti ad assistere impotenti alla morte dei feriti. “Una delle scene più brutali di distruzione totale che ho visto da quando sono presidente dell’Icrc”, ha scritto Peter Maurer, il presidente della Croce rossa internazionale, dopo aver visitato la Ghouta orientale.
Ma i combattimenti non hanno risparmiato neppure Afrin, la città dell’enclave curda nel nord-ovest della Siria, sotto attacco della Turchia e delle milizie dell’Esercito libero siriano (Fsa). Ieri i bombardamenti hanno provocato decine di morti e feriti. Fonti locali hanno affermato che anche l’unico ospedale di Afrin è stato colpito con tre missili e sarebbero almeno 15 le vittime. Da parte sua, l’esercito turco si è affrettato a negare l’attacco.
Di fronte all’imminente assalto delle truppe di Erdogan, anche da Afrin migliaia di persone stanno scappando verso Aleppo e nelle zone controllate dall’esercito siriano. Per la Turchia, gli abitanti sono “ostaggi” delle milizie curde dell’Ypg (le Unità di protezione popolare) che starebbero impedendo ai civili di lasciare la città. Una circostanza confermata anche dalle Nazioni Unite “Abbiamo ricevuto rapporti secondo cui solo i civili che hanno contatti all’interno dell’autorità curda o delle forze armate curde sono in grado di andarsene”, ha dichiarato la portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Per attraversare i posti di blocco dei militari siriani – continua la nota dell’Unhcr – i civili sarebbero costretti a pagare delle somme di denaro.
La guerra in Siria è entrata nell’ottavo anno: oltre 500.000 persone hanno perso la vita, milioni i rifugiati e gli sfollati. Una carneficina a cui il mondo ha assistito impotente e che, nonostante i timidi negoziati di pace, sembra destinata a non concludersi presto. Sul piano diplomatico, i ministri degli esteri di Iran, Turchia e Russia si sono incontrati ieri ad Astana, la capitale del Kazakistan, per discutere della creazione delle cosiddette “zone di de-escalation” del conflitto (zone sicure già previste negli accordi precedenti ma mai rispettate) e della situazione umanitaria. Nel frattempo, i siriani continuano a morire e per quelli che riescono a salvarsi dalle bombe, li aspetta una vita da sfollati.
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Il pressing di Ankara sull’America
“Il vero nemico sono i curdi dello Ypg”
Emissari turchi a Washington per spingere gli Usa a scaricare i ribelli “Ad Afrin usano i civili come scudo e hanno fatto fuggire i jihadisti da Raqqa”
Giordano Stabile
Ad Afrin la Turchia combatte «anche per la Nato e per l’Occidente», che non deve farsi ingannare dall’immagine «romantica» che i guerriglieri curdi dello Ypg cercano di dare di sé. La diplomazia turca è all’offensiva, come le truppe speciali di Ankara in Siria, dove ormai la città curdo-siriana è circondata, e migliaia di civili cercano di scappare dai combattimenti. Il rischio di essere paragonati alle truppe di Bashar al-Assad che assediano la Ghouta orientale è ciò che più teme il governo di Recep Tayyip Erdogan. Ieri gli attivisti siriani hanno denunciato l’uccisione di 27 civili nei raid su Afrin, mentre 64 persone sono morte nella Ghouta. L’offensiva diplomatica serve anche ad evitare paralleli.
Ci sono stati incontri ad alto livello a Washington, altri seguiranno ad Ankara. Il punto è convincere gli Stati Uniti che il vero nemico è lo Ypg, «al pari del Pkk e dell’Isis», come spiega l’ambasciatore turco a Roma, Murat Salim Esenli: «Che lo Ypg e il Pkk sono la stessa cosa non lo diciamo soltanto noi, lo sostiene per esempio un documento della Cia del 2017, che analizza la natura di questo gruppo terroristico e i suoi rapporti con il Pkk. E ci sono anche altri documenti americani, relazioni al Congresso, sulla stessa linea: quindi lo Ypg, al pari del Pkk, è un’organizzazione terroristica». È vero che gli Stati Uniti hanno appoggiato i curdi nella lotta all’Isis nel Nord della Siria ma «lo Ypg non si è fatto scrupolo di lasciar scappare quattromila combattenti e famigliari dell’Isis da Raqqa, e continua a lasciar filtrare i terroristi attraverso i suoi territori verso la Turchia. Noi abbiamo perso 67 soldati nell’operazione Scudo sull’Eufrate, nel 2016, e abbiamo sottratto oltre mille kmq di territori all’Isis, ma nessuno ne parla».
Con la lotta all’Isis lo Ypg è però riuscito a crearsi un’immagine «romantica» in Europa, di giovani guerriglieri che lottano per i loro ideali e contro il male. «Non è così – continua l’ambasciatore – e ci fa rabbia che gli europei si facciano ingannare. In realtà i dirigenti dello Ypg e del braccio politico Pyd sono cinici, ad Afrin usano i civili come scudi umani, e pubblicano foto false, scattate in altri conflitti, per accusare la Turchia di causare vittime fra donne e bambini. Se non avessimo avuto come primo scrupolo quello di preservare la popolazione avremmo preso Afrin in pochi giorni. L’operazione va avanti più lentamente proprio per evitare un massacro come nella Ghouta».
La diplomazia turca è però convinta che alla fine gli americani cambieranno posizione perché «hanno già ammesso pubblicamente l’esistenza dell’accordo su Manbij perché la città, una volta sottratta all’Isis tornasse sotto il controllo dell’Esercito libero siriano, e lo Ypg si ritirasse a Est dell’Eufrate». Erdogan lo ha ribadito di nuovo ieri. Ankara però tratta soltanto con Washington e non farà mai «accordi con il regime di Bashar al-Assad». Mentre lo Ypg «gioca su due tavoli, s’intende sottobanco con Damasco, non ha mai combattuto il regime». Ma c’è un senso di solitudine che traspare. L’Occidente «non capisce che combattiamo questa guerra in Siria per fedeltà alla Nato, oltre che per difendere noi stessi». La Turchia, in ogni caso, andrà avanti anche da sola perché è un atto di autodifesa, «in base all’articolo 51 della Carta dell’Onu».
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STAMPA DEL 16/3
Siria, la grande fuga da Ghouta
Ventimila profughi via dall’inferno
Giordano Stabile
Migliaia di persone riescono finalmente a fuggire dalla Ghouta devastata dai raid e Bashar al-Assad si avvicina a una vittoria decisiva, mentre la guerra civile siriana entra nel suo ottavo anno. Era il 15 marzo del 2011 quando le grandi manifestazioni a Daraa, Homs e nella stessa periferia di Damasco cominciarono a sfidare il raiss sull’onda della primavera araba. Ora il paesaggio, politico e fisico, è del tutto cambiato. Interi città, quartieri, sono in macerie e fra quelle macerie i ribelli tentano l’ultima resistenza.Le loro difese cominciano a cedere. Ieri i governativi hanno preso altre due cittadine della Ghouta orientale, Hamuriya e Saqba. I combattenti si sono ritirati e per la prima volta un gruppo consistente di civili, circa 20 mila, è riuscito a lasciare le zone assediate e ha raggiunto le linee governative, dove la Croce rossa e le agenzie dell’Onu erano in attesa di poter entrare per portare cibo e medicine.
I volti scavati di vecchi, donne e bambini che dopo quasi un mese di inferno sono riusciti a scappare, davano tutto il senso delle sofferenza tremenda che hanno passato. Dal 18 febbraio, quando sono cominciati i bombardamenti incessanti dei russi e del regime, oltre 1200 persone, la maggior parte civili, sono rimaste uccise. Gli altri sono sepolti vivi nelle cantine. Un nuovo massacro, che si va ad aggiungere alle 350 mila vittime in sette anni di conflitto.
Ma la fase delle battaglie urbane sta per finire. La Ghouta orientale è ridotta a due piccole sacche, i governativi hanno ripreso i tre quarti del territorio. Nella città di Douma si sono trincerati i combattenti dell’Esercito dell’Islam, appoggiati dai sauditi. Sono i più propensi ad arrendersi e le trattative con la Russia, secondo fonti vicine al governo di Damasco, sono a buon punto. Mosca ha promesso un salvacondotto e il trasferimento in altre zone non controllate dai governativi.
Nei giorni scorsi centinaia di feriti, combattenti e civili, sono stati portati fuori, un primo segnale. Nell’altra sacca, nelle cittadine di Arbin, Zamalka, Jasrin, resistono invece miliziani del gruppo Faylaq al-Rahman, con simpatie per la Turchia. Sono più decisi a tenere duro e per questo l’aviazione russa ha scatenato fra mercoledì e ieri un inferno di fuoco che ha demolito le loro linee di difesa e spinto la popolazione a fuggire.
Assad e Vladimir Putin vogliono chiudere la partita, in un modo o nell’altro. Nel 2013 il raiss controllava appena il 30 per cento della Siria, adesso oltre i due terzi sono suoi. Dopo la Ghouta la guerra non sarà più interna, civile ma «alle frontiere»: verso il Golan, il Nord-Ovest finito nell’orbita turca, il Nord-Est in mano a curdi e truppe americane. Ieri, davanti al Congresso Usa, il generale Joseph Votel, comandante delle forze statunitensi in Medio Oriente, lo ha ammesso apertamente: «Assad ha vinto».
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a parola araba ghuta in arabo: الغوطة, al-ghūṭa , ossia "l’oasi", designa le terre coltivate che circondano la città di Damasco e costituiscono un’oasi nel deserto siriano. Geografia Vista della Ghuta dalle montagne che circondano l’area
L’acqua che irriga tale oasi viene essenzialmente dal Barada, un fiume che scende dall’Anti-Libano, scaturendo da una stretta spaccatura nella montagna. Il Barada è stato forzato per consentire l’irrigazione di tutta la piana circostante, mentre le acque residue evaporano e s’infiltrano nel sottosuolo di un lago acquitrinoso al limite del deserto, a E di Damasco, il Baḥīra `Atayba in arabo: بحيرة عتيبة, buḥayra ʿutayba.
Questi lavori idraulici risalgono ad epoche antiche. Il Barada fu deviato già dai Nabatei, dagli Aramei e dai Romani e la sua cura fu poi assicurata dai califfi omayyadi, a partire da Yazīd I.
L’estensione attuale di Damasco tende a rendere sempre più sterili le terre coltivabili intorno alla città. L’assenza attuale di nuove risorse idriche pone un grave problema a Damasco che dipende per l’agricoltura quasi solo dall’acqua del Barada. I progetti di captazione dell’acqua nel Golan sono stati abbandonati in seguito all’occupazione militare israeliana delle alture fin dal 1973.