la Repubblica, 15 marzo 2018
Qui dove l’ultima speranza sono i dazi d’acciaio di Trump
BRADDOCK (Pennsylvania) L’appuntamento è alle 7,30 quando Jesse Smith smonta dal turno di notte. Tempo 20 minuti, per una chiacchierata al parcheggio dell’acciaieria. Poi lui corre a ingoiare un breakfast veloce e subito lo aspetta il suo secondo lavoro. Nevica a Braddock, clima polare, ragion di più per non indugiare. Tanto Jesse ha le idee chiare sul tema del momento: la guerra commerciale del presidente Donald Trump, i dazi contro le importazioni di acciaio dall’estero. “Era ora – mi dice Smith – il presidente ha fatto benissimo. La Cina non rispetta i diritti dei lavoratori, ci rovina. Quando ho cominciato in questa fabbrica avevo vent’anni, nel 2000. Allora eravamo 2.600 operai e tecnici, oggi siamo 600. E dagli anni Ottanta, soltanto lungo il fiume Monongahela che scorre qui a fianco, hanno chiuso così tante acciaierie da distruggere 25.000 posti”.
Sullo sfondo le ciminiere fumanti dell’altoforno più famoso d’America: U.S. Steel Edgar Thomson Plant, un tempo portava il nome di Carnegie, esiste da 143 anni. Braddock è capitale storica della siderurgia americana, mezz’ora di autostrada da Pittsburgh. Qui si creò la ricchezza della dinastia di Andrew Carnegie. Qui immigrarono in massa: Jesse ha antenati polacchi, irlandesi e gallesi. A un altro cancello d’acciaieria una statua gigante del 1940 commemora una sorta di Stakhanov locale: Joe “Mighty” Magarac, il Potente Joe. È raffigurato mentre piega con la forza dei bicipiti una sbarra di metallo, celebrato per la sua leggendaria produttività, reliquia di un’èra in cui l’aristocrazia operaia aveva i suoi eroi e miti. Da decenni questo è il luogo simbolo di un declino interminabile e crudele. Fu epicentro di un’epidemia di morti da crack-cocaina. Ci hanno girato i documentari di Tony Buba sul disastro della deindustrializzazione; il fanta-horror The Road tratto dal romanzo di Cormac McCarthy situa qui un futuro post-Apocalisse da catastrofe ambientale. Il sindaco John Fetterman – dai tatuaggi e acconciature potrebbe essere di Casa Pound, invece appartiene all’ala sinistra del partito democratico – ha tentato un rilancio chiamando qui graffitari e artisti d’avanguardia, con successi modesti. L’ultima speranza è Trump. “Io sono iscritto al partito democratico – dice Smith – ma ho votato Trump e non sono pentito. Fa del suo meglio, almeno per aiutare l’acciaio”. Mi congeda in fretta, ha uno sguardo preoccupato verso la fotografa Margherita Mirabella: “Fermatevi il meno possibile. Ieri in questo posto alle undici del mattino hanno sparato a qualcuno”.
Consiglio accolto, ci spostiamo nella vicina sede del sindacato, United Steel Workers of America. Una placca commemora “il grande sciopero del 1919, quando 350.000 operai incrociarono le braccia, benedetti dal reverendo pastore di St.Michael”. È un bungalow di legno, ma ben riscaldato. La factotum del sindacato, Barbara Roberts, di cognome era una Rossi: “Figlia di immigrati dalla Campania, operai delle acciaierie. Mi piacerebbe visitare la terra dei nonni almeno una volta in vita mia, ma il viaggio costa troppo”. Barbara fa consulenza previdenziale agli operai, coi numeri è precisa, mi faccio calcolare da lei la differenza tra il salario di un siderurgico, e quel che guadagna se va a lavorare “nei servizi”, come si dice qui: dagli ospedali ai centri commerciali, gli unici che hanno assunto un po’ di licenziati dalla siderurgia. “65.000 dollari lordi l’anno nell’acciaio, 35.000 negli altri mestieri”. Nel divario tra le due cifre c’è la voragine che ha inghiottito l’economia locale.
Il capo del sindacato si chiama Jim Johnston, “e continuo anche a fare l’operaio – ci tiene a precisare – mi becco i turni dei weekend”. Anche lui democratico, “ho votato Bernie Sanders alle primarie del 2016, poi osai votare per Hillary Clinton, ma sono un caso raro, i miei iscritti hanno votato Trump”. Nato nel 1981, “sono venuto al mondo quando cominciava la crisi della siderurgia”. Cifre da incubo: “Pittsburgh nell’età dell’oro ebbe 750.000 abitanti, oggi 250.000, se l’immagina una città ridotta a un terzo? Peggio di una guerra. Abbiamo avuto la droga, le famiglie sfrattate, matrimoni distrutti, suicidi”. Poiché sono italiano vuole subito spiegarmi che loro non ce l’hanno con la nostra siderurgia... però. “I dazi sono sacrosanti – dice Johnston – e le spiego perché vanno applicati a tutti. La Russia calpesta ogni regola, manda acciai semi-lavorati, li fa rifinire in Italia o in un altro paese europeo così arrivano qui etichettati Made in Europe. Lo stesso fa la Cina, ci vendono acciaio rifinito in Giappone o in Corea del Sud, oppure domiciliano le loro aziende alle Isole Vergini. Io spero che Trump ce la faccia. Questa è un’industria importante, come dice lui, anche per la difesa, per le infrastrutture. Dall’annuncio dei dazi, già due aziende hanno deciso di riaprire altiforni e riassumere 500 operai”.
Arriva Ed Shuty, 59 anni, baffoni e cappello da cowboy. “Quando è cominciata la crisi dell’acciaio – dice Ed – ho dovuto fare anche tre lavori insieme, e nessuno pagava quanto la siderurgia. Lì dove tu hai dormito in albergo stanotte, c’era l’altoforno che ha letteralmente vinto la seconda guerra mondiale, per tutte le armi che ha consentito di fabbricare. Mio nonno, mio padre, i miei zii, erano tutti orgogliosi di essere operai siderurgici. A rovinarci sono stati i globalisti, a cominciare da Bill Clinton che fece entrare la Cina nel Wto. Dalla Cina all’India, tutti vendono sottocosto”.
Mentre parlo con questi operai, in zona si sta votando. Per eleggere un deputato, un seggio vacante. Risultato: clamoroso pareggio tra il candidato repubblicano Rick Saccone e il democratico Conor Lamb, in una circoscrizione dove a novembre del 2016 Trump diede venti punti di distacco a Hillary. (Lamb ha poche centinaia di voti in più, si rischiano ri-calcoli e ricorsi). La destra arretra anche qui? Attenzione al profilo del democratico, però: Lamb è un ex militare, uomo d’ordine, anti-abortista. Sostiene con entusiasmo i dazi di Trump. È fiero possessore di un fucile e difende il diritto alle armi.
Per tornare a Pittsburgh chiamo un’auto Uber. Il guidatore, David, è un ex della siderurgia. Un altro che ha dovuto ripiegare sui “nuovi mestieri”, pagati la metà. È appena andato a votare. Repubblicano.