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 2018  marzo 15 Giovedì calendario

Macerie e sangue. Sette anni di morte nel regno di Assad

La strage di bambini nell’inferno dei sette anni in Siria. Dati agghiaccianti nell’anniversario dell’ecatombe iniziata come movimento di rivolta, diventata guerra civile e poi trasformata in conflitto con più attori in un fazzoletto di Medio Oriente.
Triste ricorrenza quella di oggi, in cui si entrerà ufficialmente nell’ottavo anno di scontri che hanno provocato oltre 350 mila morti, circa un terzo dei quali civili. È la statistica dei bambini a togliere il respiro: quasi 20 mila le vittime dal 15 marzo 2011, poco meno di mille nel 2017, anno in cui si è verificata una recrudescenza della guerra, tendenza confermata in questi primi due mesi e mezzo del 2018. Continuano ad aumentare i profughi, tra sfollati interni e i milioni di rifugiati nei Paesi vicini, ma aumentano anche i rientri in Siria proprio da Libano, Turchia e Giordania.
Dopo gli assedi di Aleppo e Raqqa, in attesa della battaglia finale per la riconquista di Idlib, l’esercito siriano, supportato dall’aviazione russa, dal 27 febbraio scorso è impegnato nell’offensiva per riprendere il totale controllo della Ghouta, alla periferia est di Damasco. Una battaglia durissima: da una parte l’esercito regolare, dall’altra i ribelli, in mezzo la popolazione civile. Il 50% del territorio, stando a fonti governative, sarebbe già nelle mani dei lealisti, capaci si spaccare in due l’enclave, l’ultima sacca di resistenza della Capitale rimasta da bonificare. Il regime tra gli obiettivi ha inserito strutture sanitarie e scuole: 175 gli attacchi solo nel 2017, denuncia l’Onu. Sono 28 gli ospedali e le cliniche colpite a Ghouta, 26 le scuole. La situazione umanitaria, così come accaduto alla fine del 2016 ad Aleppo, è drammatica. A contribuire alla crisi anche le azioni criminali delle milizie ribelli. L’altro giorno proprio loro hanno aperto il fuoco su un gruppo di civili che chiedeva di essere evacuato dalla Ghouta, facendo diverse vittime.
Martedì il corridoio umanitario, favorito dal dialogo e dalla mediazione tra le forze siriane e le Nazioni Unite, ha consentito l’evacuazione di un migliaio di civili, tra cui diversi bambini. Restano, tuttavia, a rischio migliaia di persone che hanno urgente bisogno di cure. Ma la Siria non è solo Ghouta. L’altro fronte più recente in cui Damasco è attivo, sebbene in maniera limitata, è attorno ad Afrin, l’enclave curda al confine della Turchia. Il presidente siriano ha inviato truppe al nord in supporto delle milizie dell’ Ypg, ma in maniera poco convinta, quasi fosse rassegnato a dover cedere qualcosa al presidente turco Erdogan.
Sette anni di orrori e violenze. Pensare che tutto era partito dal basso, da una protesta il cui fine era cambiare le sorti istituzionali di un Paese sostanzialmente stabile agli occhi del mondo, economicamente florido, eppure capace di violare i diritti umani.
Proprio a livello istituzionale, da quel giorno di metà marzo è cambiato poco. Il presidente, l’alawita al-Assad, è sempre all’apice di un potere delegato dalle mani del suo alleato principale, la Russia di Putin. Teheran, Hezbollah e le milizie sciite in arrivo da diversi Paesi continuano a sostenerlo e a mantenere la leadership geopolitica dell’area, in barba agli interessi Usa – mai così confusi nella loro linea strategica – della Turchia (che però cerca la sua vendetta colpendo Afrin) e dell’Arabia Saudita.
Sono i movimenti armati ribelli ad aver cambiato pelle: col passare degli anni, il movimento di protesta si è spaccato in vari fronti producendo una miriade di milizie prettamente di ispirazione sunnita e c’è stata l’irruzione di Daesh nel 2013, la creazione dell’asse Raqqa-Mosul e la conquista da parte degli estremisti islamici di città molto importanti come Hama, Palmira, Homs, Deir Ezzor, Aleppo. Ora l’Isis sta scomparendo, nelle mani del Califfato restano poche zone di egemonia prive di alcun valore strategico, mentre i ribelli ex al-Nusra – legati ad al Qaeda – resistono in alcune sacche di territorio: tra Hama e Homs, nella provincia di Idlib e soprattutto proprio nella Ghouta orientale, alla periferia orientale della capitale, Damasco.
La rivolta in Siria voleva seguire l’esempio di ciò che era avvenuto in altri Paesi del Nordafrica. Zine el-Abidine Ben Ali, Hosni Mubarak, Muhammar Gheddafi, leader storici in Tunisia, Egitto e Libia, spazzati via: il primo fuggito in Arabia Saudita, il secondo deposto e finito sotto processo, il terzo giustiziato in diretta. Quello che è avvenuto dopo non è tutto rose e fiori, basta pensare alla Libia frammentata.
Di certo l’unico dittatore che ha mantenuto continuità nonostante il tentativo di metterlo da parte è rimasto proprio lui, Bashar al-Assad, ultimo perno di una dinastia che guida la Siria dal 1970, inaugurata dal padre Hafez.