la Repubblica, 14 marzo 2018
L’amaca
L’ottima “Radio anch’io” ieri trattava la questione della mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Riforma morta in culla, portava il nome del ministro Orlando e si fondava sul carattere rieducativo della pena. Tracciata con l’aiuto di tutte o quasi le competenze in materia, era fondata sulle statistiche: il carcere duro e puro conduce, una volta fuori, alla reiterazione del crimine; il carcere che cerca rieducazione e riabilitazione aiuta, una volta fuori, a rifarsi una vita onesta.
Eppure la trasmissione era sommersa da messaggi di ascoltatori felici dell’affossamento della riforma, ritenendo «troppo comodo» un carcere rieducativo. Il plebiscito in favore del carcere punitivo prescindeva, questo è il punto, da qualunque considerazione “securitaria”, perché il carcere rieducativo, come testimoniano gli studi di settore, inibisce il crimine assai meglio. Era dunque, quell’alzata di scudi contro il “carcere comodo”, pura testimonianza emotiva di una concezione vendicativa della giustizia.
Riassumeva bene, quel dibattito, la grande difficoltà del futuro che ci aspetta.
Con una novità decisiva, però: prima delle elezioni ci si poteva illudere – sbagliando – che quelle voci fossero solo un rumore di fondo, e si potesse tenerle in poco conto. Dopo le elezioni, sappiamo che con quelle voci si deve discutere, e ci si deve battere come leoni per trovare un varco in quel muro. È la politica: risalire la corrente. Ce ne stavamo dimenticando.