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 2018  marzo 14 Mercoledì calendario

Intervista all’editore d’arte Umberto Allemandi: Non sappiamo più fare mostre, l’arte è ridotta a un circo

Che cosa donare, in una Torino quasi primaverile, a Umberto Allemandi, editore d’arte, neo ottantenne? Una Marina del marchese Enrico Paulucci? O Le barche sulla sabbia di Nicola Galante? O la (verde) Collina torinese di Gigi Chessa?
Umberto Allemandi impagina l’arte in piazza Emanuele Filiberto, tra la Consolata ritratta da Felice Vellan e Porta Palazzo, la gozzaniana «cuoca di Torino». Un indirizzo nuovo, quasi nuovo, dopo la precollinare via Mancini dove la Casa esordì nel 1983, a pochi passi dal «fu» atelier di Reycend e dallo studio di Giacomo Soffiantino, l’ultimo naturalista.
«Come avviai l’impresa?», si dispone a ricordare Umberto Allemandi. «Giovanissimo, poco più che ventenne, ero alla guida delle attività editoriali, non filateliche, di Bolaffi, fra le geniali intuizioni di Alberto. Ideammo una varietà di cataloghi, d’arte, certo, ma non solo, Come l’atlante dei vini, curatore Luigi Veronelli agli esordi».
Bolaffi. E poi?
«Giorgio Mondadori. A cui Bolaffi vendette le sue edizioni. Un paio d’anni. Ed ebbi un’intuizione. Un 24 aprile, tornando da Milano, sull’autostrada, Novara e dintorni. Giunto a Torino, impiegai una notte per tradurla in progetto. Nasceva Il giornale dell’arte».
Il giornale dell’arte, ovvero Torino nel mondo, il mondo a Torino, a rivelare la vocazione internazionale di Casa Allemandi. Quale il bestseller, quale il libro di cui è più orgoglioso?
«Il bestseller? Capire l’arte contemporanea di Angela Vettese, “la guida più imitata all’arte del nostro tempo”, come suona il sottotitolo, per nulla enfatico. Il libro di cui sono più orgoglioso? Vorrei rispondere, forse ovviamente, forse no, l’ultimo. Ma perché non Il mobile piemontese nel Settecento di Roberto Antonetto? O Il velo delle grazie di González-Palacios? O Dietro l’immagine di Federico Zeri? O Caravaggism in Europe di Nicolson, suggeritoci dallo stesso Zeri?».
Ventenne o poco più da Bolaffi. E gli studi?
«Il liceo classico Alfieri di Asti, la città dov’ero sfollato durante la guerra con i miei genitori. Tra gli amici, un’amicizia che continua, Paolo Conte. Galeotta, anche, una meravigliosa raccolta di dischi jazz appartenuta a uno zio scomparso in Russia. Li ascoltavamo per ore. Paolo, musicalmente autodidatta, si convinse così a fondare una Original Jazz band».
Ulteriori amici?
«I confrère dell’Azione Cattolica. Gianni Vattimo, Furio Colombo, Umberto Eco. Con Gianni ci vediamo spesso, riconoscendo ciò che dobbiamo a questo e a quel sacerdote: il rigore negli studi, la severità verso sé stessi. Eco lo rividi una volta al castello di Masino, ero allora presidente del Fai Piemonte. Scoprimmo di avere la medesima sensibilità: la luce ci faceva lacrimare gli occhi. Non a caso ho scelto, per i miei libri, la carta avoriata: attenua il riflesso della luce».
Eco, Vattimo, Colombo, l’Università...
«Che ho frequentato come studente lavoratore. Il lavoro? Collaboravo con un amico di famiglia, Lucio Ridenti, arbiter elegantiarum, un attore che, divenuto sordo, si dedicò a redigere la rivista Il dramma: in anteprima accolse testi di Jean Anouilh come di Tennessee Williams».
Un professore indimenticabile?
«Norberto Bobbio. La sera prima dell’esame di filosofia del diritto – purtroppo non potevo, lavorando, seguire le lezioni – scoprii che le dispense erano incomplete, mancavano le finali trentadue pagine. Una domanda smascherò la mia impreparazione. Confessai la ragione del mio mutismo. Bobbio mi promosse ugualmente, raccomandandomi di studiare o prima o poi la parte mancante del corso».
L’editore d’arte Umberto Allemandi. Tra i suoi autori, Luigi Carluccio.
«Ne ho in catalogo gli scritti, La faccia nascosta della luna. Autoironico, snob nel senso nobile, orgoglioso, permaloso, pigro. Accadde che arrivai a casa sua alle cinque del mattino – stavo ancora chez Bolaffi -, di là non muovendomi sin quando non mi diede il testo necessario per mandare in stampa un libro».
La grandezza di Carluccio?
«Le sue mostre, di assoluta caratura. Da “Il cavaliere azzurro” a “Le muse inquietanti”, a “Combattimento per un’immagine”. Sotto la Mole attiravano giornalisti da ogni parte del mondo. Non che dopo Carluccio si siano spente le luci. Ma quasi. Sicuramente, la città artistica è decaduta. Non si è più stati capaci di organizzare mostre, preferendo importarle, avendo di mira i numeri, il botteghino, la quantità rispetto alla qualità. L’arte ridotta a circo, a idolatria, come è solito fustigare Jean Clair, a proposito di miei autori».
Il Maestro torinese che predilige?
«Casorati, Felice Casorati. Il catalogo generale delle sue opere è tra i miei vanti. La sua perfetta classicità, direbbe Gobetti, la sua dimensione fisica e metafisica. le sue anime estatiche e ferme. Un cuore nordico».
Casorati. C’è un olio del Maestro di via Mazzini, Il sogno del melograno, che Umberto Allemandi potrebbe gradire per gli ottant’anni.