Corriere della Sera, 14 marzo 2018
Spettatori squillo
Raoul Bova è un attore di grandi pretese. Vorrebbe che durante i suoi spettacoli il pubblico silenziasse il telefonino o addirittura – sacrilegio! – lo spegnesse. E se gli spettatori non gli ubbidiscono, alternando la visione della pièce teatrale ad amabili conversari in viva voce con amici e parenti, egli monta su tutte le furie. Esce dal palco durante un monologo e si rifiuta di tornarvi alla fine della rappresentazione per gli applausi di rito. È accaduto l’altra sera a Catania, ma poteva succedere ovunque: il telefonino ha unito l’Italia meglio di Garibaldi e la maleducazione inconsapevole è il codice p.i.n. (preferisco interromperti nuovamente) che accomuna i fratelli di selfie. Nessuno va a teatro con l’idea di disturbare gli altri spettatori e tantomeno Raoul Bova. Così come nessuno è attraversato dal sospetto che la suoneria della Cavalcata delle Valchirie, sparata a tutto volume nello scompartimento del treno, possa infastidire gli altri passeggeri. Per preoccuparsi dell’effetto dei propri rumori sul prossimo, bisognerebbe preoccuparsi del prossimo: una pratica caduta in disuso. Ma ormai non ci si preoccupa neppure dell’effetto dei propri rumori su se stessi. Una volta uno andava a teatro per rifugiarsi in un altrove dove trascorrere due ore lontano da tutto, anche da sé. Ma adesso ogni disconnessione, ancorché momentanea, dal proprio ego, è considerata un lusso da artisti. Che poi questo Raoul Bova non faceva la pubblicità dei telefonini?