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 2018  febbraio 25 Domenica calendario

Se l’Italia difende Erdogan

Le cannoniere turche bloccano la nave mandata dall’Eni per esplorare i giacimenti petroliferi nelle acque cipriote. Forse non arrivano a minacciare di speronarla, come sostenuto da fonti greche, ma di sicuro è un intervento ostile contro un’azienda del nostro Paese. Nello stesso tempo l’Italia mantiene un costoso contingente in missione per difendere la Turchia. Un paradosso: mentre la flotta di Ankara sbarra la rotta alle ricerche di una società statale, noi ci facciamo carico della sicurezza di Erdogan.
Dal giugno 2016 abbiamo schierato una batteria missilistica per proteggere i confini turchi dalle turbolenze siriane. Si tratta del sistema anti-aereo più avanzato che esista in Europa: il Samp-T, in grado di abbattere velivoli a cento chilometri di distanza e intercettare pure missili balistici tipo Scud. Un’arma sofisticata dal prezzo stratosferico: l’Esercito è riuscito a comprarne solo cinque batterie, investendo 1.700 milioni di euro nel consorzio italo-francese che le produce.
Una di queste, con radar e apparati di controllo gestiti da 130 militari del reggimento Peschiera di Mantova, da un anno e mezzo è dislocata nella base turca di Kahramanmaras, a circa 80 chilometri dalla frontiera siriana.
L’operazione Active Fence è stata decisa dall’Alleanza atlantica, di cui Ankara fa parte, alla fine del 2012 quando la situazione in Siria è degenerata in guerra civile. Dopo l’abbattimento di un aereo turco, la Nato ha messo sul campo i suoi missili terra-aria per fornire uno schermo all’alleato. Gli italiani hanno preso posizione lì poche settimane prima del fallito golpe contro Erdogan. Ma nessuno nel nostro Paese se n’è preoccupato.
Eppure il contingente costa circa 12 milioni di euro l’anno, a cui si aggiunge un altro milione e mezzo per il contributo italiano alle spese dei grandi radar volanti Awacs mandati dalla Nato a sorvegliare i cieli dell’Anatolia. Insomma, finora abbiamo pagato più di venti milioni per questa spedizione dimenticata. I piani prevedevano di interromperla a luglio, Erdogan però ci tiene molto e nella recente visita a Roma ha dichiarato di aver ottenuto una proroga dal governo Gentiloni: i missili resteranno “almeno” fino al prossimo settembre.
Ha senso che l’Italia continui a destinare uomini, mezzi e risorse per la sicurezza di un Paese che ha agito con strumenti militari contro i nostri interessi economici? Fino a che punto la nostra politica estera – che ha il suo fulcro nel Mediterraneo – può essere subordinata alla fedeltà degli accordi atlantici?
A imporre una riflessione sulla presenza dei soldati italiani non dovrebbe essere solo la prova di forza turca contro la nave dell’Eni, ma anche la situazione che si è creata dopo l’offensiva di Ankara contro l’enclave curda di Afrin, in territorio siriano. Un’iniziativa che rischia di aprire un nuovo fronte di crisi internazionale e provocare lo scontro diretto con il regime di Damasco. La batteria italiana è schierata a meno di cento chilometri dalla zona dei combattimenti: tutta l’area contesa è nel raggio di tiro dei missili terra-aria, il cui utilizzo non dipende dal governo di Roma ma dalla catena di comando della Nato.
Se l’Eni rischia di veder sfumare grandi prospettive economiche per l’ostilità turca, un’altra azienda pubblica potrebbe fare affari grazie alla missione: Ankara è tentata dall’acquistare la tecnologia di questo sistema, progettato da un consorzio di cui Leonardo ha una quota minoritaria ma significativa. Ma il Samp-T è un’arma in grado di rendere la Turchia superiore a tutti i suoi vicini: più che un apparato difensivo, potrebbe diventare un ulteriore elemento d’instabilità nella regione più incandescente del pianeta.