La Stampa, 29 dicembre 2017
Oltre il muro di neve con le scarpe rotte. La notte dei migranti sul confine francese
La regola è alzarsi ben prima dell’alba per sfruttare il buio e percorrere indisturbati i primi 5 chilometri tra le palazzine di Bardonecchia, le eleganti baite della frazione di Les Arnaud e poi, quando finisce la strada asfaltata, il villaggio del Melezet e quindi imboccare l’insidiosa Valle Stretta. Luoghi che sono un paradiso per gli sciatori. Per loro, i migranti arrivati in treno da Torino, sono invece il primo pezzo di una strada che diventa presto calvario verso un presunto paradiso.
Quel paradiso, però, è la Francia, che non li vuole e fa di tutto, e anche di più, per respingerli. E che rischia di ucciderli.
Ci vuole così poco a sentire i piedi che iniziano a raffreddarsi nonostante i robusti doposci. Immaginate se camminaste con scarpe da jogging sgangherate, magari «rinforzate» con strati di calze che in un batter d’occhio s’infracidano e iniziano a gelare. All’inizio la fatica vi fa sudare e soffiare. Poi quello che può sembrare un sollievo diventa una coltellata alla schiena ogni volta che vi fermate a tirare il fiato e il sudore vi si ghiaccia addosso. E voi indossate una giacca a vento tecnica e di ultima generazione. Loro, spesso, strati di maglioni e una giacca da sci che ha visto tempi migliori. E si va avanti così per tre, quattro, anche sei ore, allungando la mano verso la neve soffice, illudendosi di togliersi l’arsura, mangiucchiando biscotti e qualche frutto. Gli unici, apparenti, momenti di sollievo quando si entra nelle due brevi gallerie che precedono l’arrivo al Colle della Scala, dopo quasi 4 chilometri di tornanti in salita. Ma è l’ennesima illusione. Il lungo pianoro del colle, che poi precipita verso la Val Clarée e l’accoglienza segreta degli abitanti di Nevache, nasconde le trappole dei gendarmi che da un po’ di tempo, oltre a tendere agguati all’uscita dell’ultima galleria, esplorano pure i boschi, obbligandovi ad accucciarvi nella neve. Un tormento interminabile. Eppure voi ce l’avete fatta.
Per sei volte, nell’ultimo mese, i volontari del soccorso alpino sono saliti sugli infernali tornanti per recuperare migranti in difficoltà. Uno di loro, per dire, aveva perso le scarpe nella neve alta e rischiava l’ipotermia; un altro non aveva più i guanti e un principio di congelamento.
La neve caduta l’altroieri ha steso un manto uniforme sulle tracce create dai precedenti passaggi. Ieri, era ancora abbastanza facile camminare dal Pian del Colle affollato di allegri sciatori di fondo oltre il cippo di pietra grigia che indica il confine fra Italia e Francia e fino al bivio che introduce nell’incubo.
Che lo si nota anche con la neve alta e, in ogni caso, spiccano i cartelli stradali per «Nevache» e per il «Col de l’Echelle». Lo svagato escursionista, invece, prosegue dentro la valle seguendo l’indicazione «Bar Edelweiss».
Dal bivio, i volontari del soccorso, allenati e attrezzati con sci e pelli di foca («Le motoslitte non possiamo usarle, non riescono a superare i coni di valanga che sbarrano la stradina») impiegano un quinto del tempo che occorre al migrante più in difficoltà per coprire i chilometri che li dividono dalla cima. D’estate è una bella passeggiata e, infatti, nella «settimana dello scorso Ferragosto abbiamo contato fino a 40-50 migranti al giorno» spiega il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, ritrovatosi sulle spalle un problema diventato tale dopo la «serratura» messa al confine di Ventimiglia. Non tutti, ovviamente, scelgono la difficile mulattiera invernale. I primi tentativi avvengono nascondendosi sui treni, ma l’occhiuta Gendarmeria li becca quasi tutti e li riporta ogni sera con un pulmino bianco nel piazzale della stazione di Bardonecchia. Pare, invece, finalmente chiusa la pericolosissima strada del tunnel ferroviario che i migranti cercavano di superare a piedi rischiando ogni volta di essere schiacciati dal treno. Da tempo, un presidio di alpini controlla l’ingresso e rilevatori di presenze sono stati montati nel tunnel. «Poi c’è chi s’ingegna e ne approfitta – racconta il giovane commissario capo della polizia di Bardonecchia, Christian Falliano – come quelli che hanno tentato di sconfinare con “Bla-bla car”».
Tutti i migranti che scendono alla stazione di Bardonecchia, circondati da frotte di sciatori che arrivano per le vacanze di fine anno, sono accolti da medici e infermieri volontari di «Rainbow for Africa» e aiutati dalle bevande calde portate dall’ambulanza della Croce Rossa. Entrambe le organizzazioni sono state coinvolte dal Comune, d’accordo la Prefettura, in un progetto di accoglienza che mette a disposizione una stanzetta riscaldata nella sede dei volontari del Corpo nazionale del soccorso alpino e speleologico che occupa un’ala della stazione.
I medici aprono la stanza solo verso le 23 e i giovani, che ormai da un’ora e mezza, da quando è stata chiusa la sala d’aspetto, patiscono il gelo sparpagliati per l’edificio, in fila indiana s’infilano nella cameretta dove i materassi sono cartoni o coperte stese sul nudo pavimento. Le 23 è un orario strategico, scelto perchè coincide con l’ultimo treno per Torino e l’ultima possibilità per i migranti di tornare sui loro passi, una volta scoperto il calvario di ghiaccio che li attende. «Ma dove siamo finiti? Che posto è questo? Fa un freddo che t’ammazza» quasi urlava un giovane tunisino («Mi chiamo Amhed, ho 19 anni») arrivato «da Ferrara e vado a Parigi» con una donna («È mia madre») devastata da un mal di denti atroce. Di lei si sono presi cura i due medici volontari di turno, il ginecologo vicentino Carlino Dagli Orti, 69 anni, e il torinese Enrico Pugnani, di 45, medico aziendale Rai. «Se passo? Non so, non credo. Sono venuto a vedere» dice Said, 26 anni, in un buon italiano: «Sono qui da tre anni, in Brianza. Perché La Francia? Ma perché qui dove sono ora non faccio nulla, almeno provo a cambiare».
Nessuno rivela i suoi piani e tutti vengono avvertiti dei pericoli in agguato. «Di là ho amici che potrebbero aiutarmi» spiega Adam che viene dalla Costa d’Avorio e sostiene di avere 18 anni ma sembra più giovane: «Se vado? Non so...». Non ci andrà ma l’intenzione è evidente: è l’unico, ammaestrato da esperienze precedenti, a indossare una vecchia tuta da sci e scarponi adeguati. Non ci è andato perchè ieri, ancora in tarda mattinata, la stradina che dal bivio della Valle Stretta porta al Colle della Scala era intonsa: nessuno ha avuto il coraggio di lasciare le sue impronte sulla neve. Ieri.