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 2017  dicembre 17 Domenica calendario

Indifferenti a Caravaggio. Quando nel 1610 l’estremo capolavoro caravaggesco giunse nella Superba nessuno lo imitò

Mentre a Milano la mostra Dentro Caravaggio, allestita a Palazzo Reale fino al 28 gennaio 2018, sta letteralmente sbancando il botteghino, a due passi dai capolavori caravaggeschi, Alessandro Morandotti “osa” avanzare una tesi che suona quasi irriverente: la storia dell’arte nell’Italia del Seicento si potrebbe scrivere dando a Caravaggio uno spazio marginale. E subito spiega perché. Il linguaggio del genio lombardo si affermò in realtà solo in quei luoghi dove il pittore aveva soggiornato e realizzato opere pubbliche. Roma, Napoli e l’Italia meridionale rimansero certamente stregate dagli esiti del maestro lombardo e la storia dell’arte lì davvero cambiò strada al momento del suo passaggio. Ma questo non accadde in numerosi altri e importanti centri della penisola italiana, dove si continuò a dipingere, ed anche molto bene, senza lasciarsi influenzare dall’astro del Merisi. A Firenze, Bologna, Venezia, Genova, Torino, e persino a Milano (città natale del pittore) si continuò a dipinge tranquillamente senza sentire il bisogno di intingere i pennelli nel drammatico chiaroscuro caravaggesco.
Con la mostra L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, il curatore Morandotti focalizza la sua attenzione sulla città di Genova, nella quale, nel 1610, approdò il Martirio di Sant’Orsola, l’estremo capolavoro di Caravaggio, dipinto a Napoli e spedito via mare nella Superba per ordine del committente, il ricchissimo collezionista Marco Antonio Doria.
Un quadro così inteso e drammatico, davanti al quale, oggettivamente, oggi si barcolla dall’emozione, non fece ai contemporanei alcun particolare effetto. Marco Antonio Doria certamente mostrò con orgoglio il suo Caravaggio ad altri pittori invitati ad ammirare la sua collezione, ma tutti questi pittori si limitarono a osservare con distacco il quadro, attratti più dall’insolita iconografia del martirio che dall’impressionante stile del dipinto. Bernardo Strozzi, ad esempio, replicò lo stesso soggetto circa cinque anni dopo restando però Bernardo Strozzi: nella sua versione invano cercheremmo il dramma e il chiaroscuro del modello ispiratore. Strozzi interpretò la ferocia del soggetto con una gagliarda tavolozza di colori brillanti, cangianti e pieni di «sugo» (così dicevano i contemporanei), per i quali il pittore era tanto apprezzato nella sua Genova.
Una decina d’anni dopo l’arrivo Martirio del Caravaggio a Genova, un altro pittore attivo in città, Giulio Cesare Procaccini, si misurò con lo stesso soggetto. Anche qui la drammatica intensità caravaggesca della feroce esecuzione si tradusse in una sorta di danza tra la Santa e il suo carnefice.
Insomma, Caravaggio a Genova non sfondò. Ed anche se Marco Antonio Doria continuò a rifornirsi a Napoli di quadri di caravaggeschi ortodossi come Battistello Caracciolo e Jusepe de Ribera, i maestri che in realtà andarono a gremire le chiese e le collezioni private cittadine furono altri. La mostra ci fa comprendere che uno dei grandi protagonisti della pittura genovese di primo Seicento fu proprio Giulio Cesare Procaccini (bolognese di nascita e milanese d’adozione). In rassegna “giganteggia” la sua colossale Ultima Cena proveniente dalla basilica genovese della Santissima Annunziata del Vastato, una tela di cinque metri per otto che di solito di trova appesa a oltre 10 metri dal suolo, e che qui in mostra, per la prima volta, si può ammirare ad altezza d’uomo.
A prediligere Procaccini fu soprattutto Giovan Carlo Doria, fratello di Marco Antonio Doria. La mostra ci aiuta a ricostruire le caratteristiche della mirabile collezione di Giovan Carlo che, oltre a meravigliosi quadri di Giulio Cesare Procaccini, poteva vantare ritratti di Rubens (come il celebre Giovan Carlo Doria a cavallo prestato dalla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola), tele di Morazzone e Vouet, e quadri d’emozionante bellezza usciti dal guizzante pennello di Bernardo Strozzi.
La pittura genovese di primo Seicento non parve dunque avere alcun bisogno di Caravaggio per esprimere una grande vitalità e una grandissima qualità. Nelle tele di medio e grande formato, come negli stupefacenti bozzetti preparatori – che i pittori dipingevano con estrema cura per sottoporli al giudizio dei committenti -, la solida tradizione locale poggiò le sue basi su Rubens, su van Dyck, su Procaccini e su Strozzi. Non su Caravaggio.
Eppure Caravaggio, a Genova, non venne dimenticato. L’ultima sezione della mostra rappresenta un piccolo colpo di scena. Il Caravaggio “rientra” nella Superba attraverso un pittore caravaggesco nordico come Matthias Stom (o Stomer). E stavolta il caravaggismo attecchisce: il genovese Gioacchino Assereto dipinge quadri come la Morte di Catone che sono in puro stile caravaggesco, seppur di un caravaggismo di “seconda mano”. Gli esiti di questa “fiammata caravaggesca” sono spettacolari: la sequenza delle grandi opere di Matthias Stom affiancate a quella di Assereto, con le quali la mostra si conclude, offrono al visitatore una forte emozione in cauda.