la Repubblica, 15 dicembre 2017
Come nasce un terrorista
Ventiquattro anni dopo Amri è ancora sopra un ponte, la passerella di assi di legno e ferro verniciato di bianco che collega i distretti berlinesi del Mitte e di Moabit. Col suo smartphone e le cuffie bianche nelle orecchie, in una giornata pallida di fine ottobre, registra il giuramento di fedeltà allo Stato Islamico, preludio all’attentato terroristico più sanguinoso della storia tedesca dopo quello delle Olimpiadi di Monaco 72. È una recita improvvisata eppure senza sbavature. Le parole gli escono dalla bocca fluide e costanti, come l’acqua del canale che scorre sotto di lui e che si perde più avanti nella Sprea. Anis Amri ha deciso.
L’alito mortifero del Califfato, di cui si sente soldato e martire, soffierà nel mercatino di Natale della Breitscheidplatz, tre chilometri in linea d’aria da lì. Prima intende lasciare una traccia digitale indelebile, che ne disegni la parabola del ragazzo musulmano diventato estremista salafita. Ogni suo proposito di integrarsi nella società occidentale fallisce sul ponte “Kieler”, nel momento esatto in cui il suo telefono inizia a registrare.
A niente sono serviti i lavori precari, i centri di accoglienza, i quattro anni di carcere, i tentativi di motivarlo con il teatro, l’amicizia con una suora cattolica, le richieste d’asilo sempre rifiutate. A nulla è servito il peregrinare che dalla Tunisia lo ha portato in Sicilia e, poi, spinto fino in Germania. Dove, la sera del 19 dicembre 2016, ucciderà undici persone tra cui la trentunenne italiana Fabrizia Di Lorenzo, schiacciandole con un tir nero rubato a un autista polacco assassinato con un colpo di pistola. Amri morirà a Sesto San Giovanni quattro giorni più tardi, subito dopo il suo compleanno, per mano di due poliziotti italiani. Il video del suo giuramento sarà diffuso dall’agenzia Amaq affiliata all’Isis.
Ma chi è davvero Anis Amri?
Lui non lo può più raccontare. Le carte giudiziarie degli inquirenti tedeschi e italiani ne restituiscono un profilo troppo parziale.
Repubblica ha trovato una chiave per aprire il “segreto Amri”. Si chiama Montasaar Yaakoubi. È un tunisino ed è un suo caro amico. Si trova nel carcere di Teramo. E la notte della strage di Berlino, davanti al televisore, rimane senza parole Le storie di Amri e Yaakoubi si possono sovrapporre, almeno per un certo periodo. Hanno identico prologo e opposto finale: uno sceglie di fare il terrorista, uccide e si fa uccidere; l’altro si sposa con un’italiana di Aprilia e ha un figlio. Perché? Quando si separano le strade dei loro destini?
Siamo andati nel penitenziario abruzzese dove Yaakoubi sconta due anni e sei mesi per reati che niente hanno a che fare con il terrorismo. L’hanno condannato per spaccio di stupefacenti. Lui e Amri sono cresciuti nella stessa regione tunisina, una terra di poveri contadini che lottano con l’avanzare del Sahara per difendere gli uliveti: un posto tranquillo fino a pochi anni fa, caduto poi nel vortice del fondamentalismo, con i jihadisti talmente spavaldi da organizzare arruolamenti nelle pubbliche piazze. Appartengono alla stessa generazione, sono entrambi musulmani. Sono scappati insieme. Nello stesso periodo. Con lo stesso barcone. Era il 2 aprile 2011.
L’inizio di tutto.
Un barcone per due
La prima primavera di Tunisi dopo la Rivoluzione è iniziata nel peggiore dei modi. Le elezioni generali sono state rinviate all’autunno; gli scontri con la polizia e la morte di cinque manifestanti hanno provocato le dimissioni del governo di unità nazionale di Mohamed Ghannouchi. Il Paese appare sull’orlo del caos, la gente ha fame, manca il lavoro. Un’onda umana cerca di scappare: sulle coste siciliane in un anno si contano sessantamila arrivi. Nessuno sa come fermarli. Il 25 marzo i ministri di Interni ed Esteri, Roberto Maroni e Franco Frattini, volano a Tunisi. Chiedono alle autorità di accettare il rimpatrio immediato dei loro cittadini, come prevedono gli accordi. I loro interlocutori gli rispondono allargando le braccia: da una settimana in Libia è guerra totale e devono accogliere duecentomila profughi.
Alle tre di notte del 2 aprile, Amri e Yaakoubi raggiungono una spiaggia alle porte della capitale e salgono su un barcone di legno. «Non avevo ancora diciotto anni ma me lo ricordo come se fosse oggi. Eravamo in 65 su un’imbarcazione di appena otto metri. Ho conosciuto così Amri. Abbiamo iniziato a parlare perché veniamo dallo stesso paese. Io avevo preso un diploma da parrucchiere quando avevo quattordici anni: la mia idea era di trovare occupazione in Italia, di mettere su famiglia e avere bambini. Ma non avevo documenti, quindi potevo lavorare solo in nero. Amri mi disse che stava andando via dalla Tunisia perché se la polizia l’avesse rintracciato lo avrebbero messo di sicuro in carcere».
Da quando aveva lasciato la scuola, a quindici anni, Amri cercava di evitare la vita agra della sua numerosa famiglia. Suo padre Mustapha lo vedeva bere, drogarsi, spacciare. I lavori che riusciva a fargli ottenere non duravano mai più di una settimana. Sempre in sospeso, già allora, tra il bene e il male.
«Il viaggio fino a Lampedusa è stato durissimo, siamo rimasti due giorni senza mangiare e senza poterci muovere. Con noi c’erano due donne, una era incinta e si sentiva male. Ma che potevamo fare in mezzo al mare? Niente, solo tranquillizzarle. Amri mi colpì per la sua gentilezza. Mi dava consigli, mi diceva in continuazione: “Qualunque cosa succeda sul barcone, stai calmo, non fare niente…”».
Il Mediterraneo è clemente e alle 23 del 4 aprile una motovedetta della Guardia Costiera italiana li incrocia alla deriva. Li portano al molo Favaloro di Lampedusa, e, una volta a terra, Amri fa una cosa che Yaakoubi non fa: si inginocchia e ringrazia Allah, rivolto in direzione della Mecca. Amri è un musulmano praticante.
Però non si fa problemi a mentire. Ha compiuto i diciott’anni, ma alla polizia italiana dichiara di averne solo sedici: è il modo più semplice per evitare rimpatri ed entrare nel circuito protetto per l’accoglienza dei minorenni. Indossa i suoi vestiti migliori, asciutti e puliti, un berretto di lana sui ricci neri, uno zaino con qualche dinaro e un ricambio.
«Amri era molto credente. Anch’io sono musulmano, ma non a quel livello. Quando vedemmo le spiagge e le luci dell’Italia, per noi fu la realizzazione di un sogno. Eravamo in Europa e ce l’avevamo fatta. Eravamo felici e sicuri che il peggio fosse passato».
È un’illusione. E durerà poco.
Lampedusa in quei giorni è al collasso. Il centro di contrada Imbriacola straripa sotto il peso di più di duemila ospiti, che bivaccano ovunque, per terra, in catapecchie improvvisate, tra i massi. Sul molo ci sono centinaia di migranti sdraiati per terra. Il 2 aprile incendiano una roulotte parcheggiata nel porto. «Le feu pour partir», dicono poi alla polizia, con piglio di sfida. Il fuoco, tanto per cominciare. Denunciano di essere tenuti al freddo e senza cibo, per protesta mandano via il furgone che sta portando i pasti.
«Un macello», ricorda Yaakoubi. «Si dormiva fuori accampati, si mangiava una volta al giorno quando si riusciva. E io non mi staccavo mai da Amri».
Ci sono i giornalisti, a Lampedusa. Tanti. Le telecamere della Rai riprendono per caso i due tunisini, immortalando l’immagine del futuro killer di Berlino spettatore inerte di una sassaiola con la polizia. Amri è seduto su un muretto, il cappellino calato sugli occhi, prudentemente in disparte mentre decine di suoi connazionali lanciano pietre agli agenti e danno fuoco a coperte e materassi. Il fumo dei roghi si alza alto nel cielo del Mediterraneo. Sono rinchiusi sull’isola da giorni e si è sparsa la voce che stanno per essere rispediti in Tunisia. Tutti. L’unica risposta è la rivolta.
Amri è attento, vuole evitare guai inutili. Per lui, “presunto minorenne”, è stato già riservato un posto sulla nave per la Sicilia: il 7 aprile, tre giorni dopo lo sbarco, lui e altri sette ragazzi vengono trasferiti nella Comunità alloggio per minori “Romeo Sava” di Belpasso, un comune alle pendici dell’Etna nel Catanese. C’è pure il nuovo amico Montassar Yaakoubi.
«In quel momento Amri è solo uno dei migranti che lasciano la Tunisia per rifarsi una vita», spiega Claudio Galzerano, direttore della Divisione antiterrorismo della Polizia di Prevenzione. «La Primavera araba ha scoperchiato il vaso di Pandora di un’intera generazione che non era fatta solo di ingegneri nucleari o ricercatori universitari: c’erano migliaia di giovani abituati a subire e tacere. Improvvisamente si sono ritrovati con la libertà in mano e hanno sfogato tutto quello che avevano represso».
Accadrà anche nella Comunità di Belpasso, per sei mesi e sedici giorni la casa di Anis Amri.
L’unica che abbia mai veramente abitato in Italia.
La gang di Belpasso
Belpasso non è l’Europa che si aspettavano. Non ci sono lavori facili, né opportunità. La Comunità è una tranquilla scuola paritaria di provincia che accoglie bambini di famiglie disagiate, difesa da un cancello verde coi cartelloni di Minnie e Topolino e gestita dalla Fondazione Sava. Di migranti, qui, non ne hanno mai visti prima.
«Belpasso per noi era un tetto sicuro: non ci facevano mancare niente, stavamo bene e uscivamo quando volevamo», ricorda Yaakoubi.
«Passavamo le giornate a giocare a calcio e a carte, qualche volta siamo andati in piscina e una volta pure in spiaggia. Volevamo guadagnare soldi, ma senza documenti combinavamo poco. Ogni tanto mi prendevano come muratore a 150 euro a settimana. Era raro. E quindi finiva che ci ubriacavamo tutti i giorni...».
Amri era diverso. Beveva anche lui e si stordiva con il fumo come gli altri, però il suo pensiero fisso rimaneva mandare denaro a suo padre Mustapha a casa.
«Era stato il primo a venire ingaggiato come manovale in nero. Faceva la spesa per tutti e ci comprava le ricariche del telefonino. Spesso mi portava con lui, quando gli serviva qualcuno per finire un lavoro. Beveva con me, si drogava con me, usciva fino a tardi la notte con me. Tutto di nascosto, ovviamente».
Agli otto “presunti minorenni” venuti dalla Tunisia la Comunità di Belpasso sta stretta fin da subito. In un attimo formano una piccola gang, e su chi debba essere il leader non c’è neanche da discutere. Amri.
Cominciano coi compagni di stanza, vessandoli e molestandoli. Alessandro allora aveva 16 anni ed era poco più piccolo di loro. «Si divertivano a bagnare i nostri letti con acqua insaponata. Una sera ero da solo, l’ho riferito all’educatore e lui mi ha detto di lasciar perdere e di dormire nell’altro letto, ma quando sono tornato su mi sono accorto che anche l’altro letto era tutto bagnato».
Aggressivi, provocatori, irrequieti. Giovani uomini in bilico. È la loro prima estate in Italia, e la passano vagando per le strade di Belpasso, scroccando sigarette e ricariche telefoniche, rubando cellulari, sputando nei piatti di carne. Vogliono solo del pollo e la salsa piccante. Gli educatori sono uno dei loro bersagli preferiti, li sfottono e gli fanno gli scherzi. Yaakoubi e Amri sono inseparabili, come fratelli.
C’è una donna, però, che entrambi temono e, a loro modo, rispettano: suor Elisabetta, la religiosa più anziana della Comunità.
Amri la provoca, la invita più volte a pregare con lui nel nome di Allah, un giorno le fa trovare tutti i crocifissi capovolti. Eppure, Amri ha in comune con quella donna devota più di quanto abbia con gli altri scapestrati della banda, che giudica pessimi musulmani. Di nascosto dal gruppo, fa lunghe chiacchierate con suor Elisabetta al telefono.
«E chi se la può dimenticare, la cara zia Elisabetta... noi la chiamavamo così, zia, anche se era più come una mamma, la mamma che in Italia non avevamo». Yaakoubi ancora sorride quando ripensa a lei.
«Una sera a mezzanotte ci beccò che stavamo scavalcando il muro della scuola per uscire in paese: ci prese a sberle e ci rimandò dentro. Quante ce ne ha date! Poi però non fece la spia con gli educatori. Era bravissima, una persona indimenticabile. A volte ci dava pure i soldi di nascosto».
Ma non è di marachelle che si nutre Amri. È tornato a spacciare droga. Prega con la stessa regolarità con cui beve alcolici e avvicina ragazzine, coltivando la vana speranza di un matrimonio di convenienza che gli faccia ottenere la cittadinanza italiana. Si è stufato di incamerare delusioni e porte in faccia. È di nuovo in bilico, vacilla. Cade.
Il 22 ottobre 2011, alle 22.30, l’educatore Dino Guarnaccia attacca il turno alla Comunità di Belpasso. Ma quella sera non sarà una sera come le altre.
«Ho subito percepito l’ostilità dei tunisini. Si erano messi davanti all’ingresso degli alloggi e non mi lasciavano entrare». Comincia così il suo verbale. «Mi hanno circondato spintonandomi e colpendomi con calci e pugni, a mo’ di imboscata. Mi hanno preso il telefonino e minacciato dicendomi che mi avrebbero dato fuoco. Gridavano che era colpa mia se ancora non avevano ottenuto il permesso di soggiorno, si lamentavano anche per la qualità del cibo della mensa, a loro dire pessima».
Amri guida gli aggressori. Sono in cinque.
Guarnaccia riesce a divincolarsi, si fa prestare il telefono da Alessandro, l’ospite italiano sedicenne, e chiama i carabinieri. I militari arrivano e rimproverano i tunisini. Non sono neanche usciti dal cancello verde della Comunità che Guarnaccia viene assalito di nuovo. Al pronto soccorso, più tardi nella notte, gli certificheranno un trauma cervicale e due costole rotte. I tunisini però non hanno ancora finito. Danno fuoco alla camera dormitorio, bruciando due materassi. Gli operatori vedono uscire Amri dall’edificio in fiamme.
Ride.
Il giorno dopo le porte blindate del carcere catanese di Piazza Lanza si chiudono dietro le sue spalle con un cigolìo. Anis Amri è in gabbia. È fuggito dalla Tunisia per evitare la galera. E invece in galera, per giunta straniera, è finito lo stesso. Anche i suoi quattro complici lo seguono tra le sbarre. Montassar Yaakoubi, invece, no.
Il destino ha separato i due amici poco prima del rogo di Belpasso.
In agosto Yaakoubi è diventato maggiorenne ed è uscito dalla Comunità. «Mi hanno dato un permesso di soggiorno e ho trovato un lavoretto in regola e una ragazza». Esattamente ciò che Amri non è riuscito a fare. «L’ho incontrato in caserma, ho parlato a lungo con lui e secondo me non c’entrava niente con l’incendio: sono stati gli altri a incastrarlo».
Il futuro killer di Berlino si rivela un detenuto per niente facile. Mentre va avanti il processo per i fatti di Belpasso – sarà condannato nel marzo 2012 a quattro anni – gira le prigioni di mezza Sicilia. Il ministero della Giustizia è costretto a spostarlo sempre per lo stesso motivo: «Ordine e sicurezza». Prima lo trasferiscono nella sezione adulti del carcere di Piazza Lanza, poi ad Enna, Sciacca, Agrigento, Palermo Pagliarelli, Palermo Ucciardone. Tutti istituti di pena senza una moschea e dove agli imam esterni è proibito l’ingresso. Chi prega lo fa da solo, in cella.
Durante la sua detenzione gli agenti della polizia penitenziaria intervengono dodici volte per sedare le risse e i tafferugli in cui è coinvolto, compresa una protesta ad Agrigento generata proprio dalle sue urla e dal battere di continuo la gavetta sul ferro delle sbarre. A volte fa il capo, altri giorni si chiude nel silenzio e non parla con nessuno.
Che cosa si agita dentro di lui?
Nel 2013 è a Enna. Un istituto all’avanguardia nella rieducazione, ricco di attività per i reclusi. Alla direttrice Letizia Bellelli, ai volontari, alla sua maestra di italiano Ida Ardica, pare un solitario, capace però di infiammarsi all’improvviso quando gli si impedisce di fare qualcosa. Giocare a calcio nel cortile, ad esempio. Riescono a coinvolgerlo nella preparazione dello spettacolo teatrale “Rinaldo in campo”, il musical reso famoso da Domenico Modugno e Delia Scala: narra di un brigante buono, che ruba per aiutare i poveri e poi diventa rivoluzionario seguendo Garibaldi. Ad Amri assegnano il ruolo marginale del suonatore di tamburo.
Nei panni di Angelica, la protagonista, c’è la volontaria e giornalista Pierelisa Rizzo: «Passammo mesi a provare, era un modo per fare gruppo con i detenuti. Amri aveva grosse difficoltà nel comunicare, non raccontava niente di sé né della sua famiglia, del suo passato o dei suoi progetti. Pregava da solo, ma non ho mai colto alcun segno di integralismo. Neanche durante il Ramadan, il mese sacro per i musulmani». La direttrice Bellelli ne ricorda un curioso particolare: «Mi chiese di essere messo in isolamento, si era chiuso in se stesso. Voleva essere trasferito in un carcere in Sardegna, perché riteneva che lì avrebbe potuto lavorare».
Per i funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Anis Amri non è nessuno. Almeno fino al pomeriggio del 28 agosto 2014.
Quel giorno è a Villaseta, ad Agrigento. Condivide la cella con Michael Zadok, un ghanese cristiano di 41 anni arrestato perché ritenuto essere un trafficante di uomini. Amri è indiavolato: lo minaccia di morte, strappa il crocefisso che ha appeso al muro, gli ordina di convertirsi alla religione di Maometto. «Mi sta terrorizzando, vuole per forza farmi diventare musulmano. Vi prego, aiutatemi. Non lasciatemi da solo con lui», va a dire Zadok al direttore della prigione. Quanto basta per scrivere il nome di Amri, per la prima volta, nell’elenco dei soggetti a rischio radicalizzazione.
È un punto di svolta. «L’episodio dimostra che la sua religiosità non era più vissuta all’interno dell’individuo ma era esternata», osserva il capo dell’Antiterrorismo Galzerano. «Il ragazzo ammetteva il ricorso alla violenza e non faceva più mistero delle tendenze integraliste».
Le sue telefonate e la sua corrispondenza vengono controllate, la situazione finisce al vaglio del Casa, il Comitato analisi strategica antiterrorismo del Viminale. Non gli trovano niente. Amri è scaltro, ha intuito che deve starsene buono e spegnere i riflettori che il suo temperamento gli ha puntato addosso.
Con singolare coincidenza, il 28 agosto è anche il compleanno di Yaakoubi. Compie 21 anni. Le sliding doors lo hanno portato fino ad Aprilia, sta faticosamente costruendo un’ipotesi di futuro. Dopo Belpasso si era messo nei guai da solo, minacciando un suo connazionale: per sette mesi ha conosciuto la galera, poi si è spostato a Trento da suo zio. Ha provato ad arrangiare qualcosa in Svizzera e in Germania, ma l’hanno fermato e rispedito in Italia. Ora lavora nei campi attorno ad Aprilia, si è fidanzato con Gessica. Vive a casa dei genitori di lei, nella frazione di Campoverde. Gessica è incinta.
Si sposano a novembre.
Con 156 giorni di anticipo, Anis Amri esce il 18 maggio del 2015. Si è fatto quasi quattro anni. Ha ottenuto un piccolo sconto, nonostante pure all’Ucciardone si sia distinto per i soliti atteggiamenti molesti. Amri è finalmente fuori, ma non è libero né felice.
Gli hanno spiegato che, per la legge italiana, entro trenta giorni dovrà essere espulso. Quello che non sa è che la burocrazia internazionale gli sta già dando una mano a restare in Europa.
I poliziotti della questura di Palermo lo accompagnano al Centro di identificazione ed espulsione di Pian Del Lago, a Caltanissetta. Amri è docile, non vede alternative. Ma la pratica si inceppa. La direzione del Cie scrive a Tunisi e chiede il riconoscimento della cittadinanza, passaggio indispensabile per rimandarlo in patria. Nessuno risponde, e non è la prima volta. Qualche mese prima c’aveva provato anche la questura di Agrigento, ugualmente senza risultato.
Passa una settimana, ne passano due, tre. Dopo trenta giorni, periodo massimo in cui un migrante può essere trattenuto nel Cie, a Tunisi tutto tace. A questo punto il questore di Caltanissetta non può far altro che liberarlo: gli consegna un foglio di via che lo obbliga ad allontanarsi dal territorio italiano entro sette giorni e ordina di rilasciarlo.
Quel mese trascorso nei casermoni recintati e sorvegliati a vista è ancora materia di indagine per la nostra Antiterrorismo. Rimane un buco nero, su cui gli investigatori continuano a lavorare. Nel Cie, infatti, Amri cambia. Ha rimesso l’Islam in cima alle sue priorità. Lo sentono al telefono lamentarsi con suo padre Mustapha per il cugino morto in un incidente stradale mentre ubriaco era al volante. Non è degno di essere sepolto in un cimitero musulmano, perché ha violato le leggi di Allah.
Vuole andare a tutti i costi in Germania. Non si sa chi abbia incontrato, né su quali appoggi e contatti potrà contare una volta giunto là. Ma è a Caltanissetta che decide quale sarà la sua prossima destinazione.
È il 18 giugno del 2015. Un giovedì.
Ha in tasca una scheda telefonica “pulita”. Gliel’ha regalata Seyed, un tunisino conosciuto proprio nel Centro e che sarà espulso dal Viminale subito dopo la strage di Berlino per la frequentazione di estremisti islamici. Con quella scheda Amri fa la sua prima telefonata da uomo libero. Chiama Suor Elisabetta.
Lei si trova in Sardegna, non è più a Belpasso. Parlano a lungo. Amri le dice di volere andare in Germania, le chiede soldi e aiuto. I tabulati dimostreranno che poi ha contattato anche diverse ragazze in Sicilia, alcune delle quali minorenni. Sono frettolosi e inutili tentativi di riallacciare vecchi rapporti, con l’idea di trovare in un’unica occasione moglie e permesso di soggiorno.
L’ultima telefonata la fa al suo amico.
Incrocio pericoloso
«Erano quattro anni che non lo sentivo, mi chiama e mi fa: “Sono appena uscito dal carcere, non so dove andare a dormire, dammi una mano per favore”. Io gli ho detto che non stavo più in Sicilia, che ero ad Aprilia e mi ero sposato… ma lui insisteva, mi giurava che sarebbe rimasto al massimo un paio di giorni, giusto il tempo di ricevere i soldi inviati da sua madre e andare in Germania».
Tutto sommato Montassar Yaakoubi è anche contento di rivedere Amri. Si era fatto vivo prima con un messaggio su Facebook, poi con una telefonata. Yaakoubi vive con la famiglia di sua moglie Gessica, in una casa ancora da terminare lungo la provinciale di campagna a Campoverde, circondato da terreni incolti. C’è spazio per un ospite, basta che rimanga poco.
Il treno di Amri si ferma a Latina Scalo il sabato del 20 giugno alle quattro del pomeriggio. Yaakoubi lo riconosce a fatica.
«Fisicamente era diverso, aveva la barba lunga ed era molto dimagrito. Era periodo di Ramadan e ogni giorno pregava cinque volte. Era sempre un bravo ragazzo, però era cambiato».
Amri non è più quel vizioso compaesano che aveva conosciuto sul barcone per Lampedusa. «Non beveva alcool, non fumava più le canne, non faceva niente. Pregava. E parlava poco. La sera, quando tornavo dai campi, uscivamo insieme. Mi diceva di avere trovato dei contatti in Germania. Sosteneva che là sarebbe stato bene, che gli avrebbero dato un appartamento e un lavoro vero. Inseguiva ancora lo stesso sogno di quando siamo arrivati in Italia. Era arrabbiato per quei quattro anni di prigione, secondo lui un’ingiustizia».
«Abbiamo anche telefonato a zia Elisabetta, la suora. E ad altri ragazzi che erano con noi in Tunisia. Siamo stati bene, tutto qua».
Amri scherza, ma non quando si tratta della sua religione. Rifiuta di sedersi, la sera che Yaakoubi e la moglie hanno apparecchiato sotto la tettoia di cemento della loro casa e hanno messo sul tavolo una bottiglia di birra. Discutono di Siria, di Isis, di Al-Baghdadi. Amri sembra accettare l’opinione di Yaakoubi sulla situazione del Medio Oriente. «È uno schifo, e l’Isis l’hanno creato gli Stati Uniti».
Dopo neanche dieci giorni sale di nuovo su un treno, saluta il vecchio amico, sparisce.
«È l’ultima volta che l’ho visto. Mi ha ricontattato su Facebook, spiegandomi di essere arrivato in Germania, di aver chiesto l’asilo politico e di aver ottenuto una casa da condividere con un altro migrante. Postava fotografie, si era fatto amicizie nuove. Si era sistemato, finalmente. Sì, direi proprio che era felice».
Gefahrder!
Amri mente. Da quando è entrato in Germania è un uomo ancor più in bilico.
La prima identificazione avviene pochi giorni dopo, il 6 luglio 2015, a Brisgovia nei pressi del confine con la Francia e la Svizzera. In sei mesi, tra luglio e dicembre, si presenta alle autorità tedesche usando quattordici alias e tre nazionalità fasulle: Mohammed Hassa, Ahmed Almasri, Ahmed Zaghloul, Ahmed Zarzour… Fa cinque domande di asilo nei centri per stranieri a Berlino, a Dortmund, ad Arnsberg: salta da una struttura di accoglienza all’altra, si fa notare dalla polizia per il furto di una bicicletta e il pugno in faccia a una guardia giurata.
Il sistema di integrazione sociale tedesco non sembra funzionare con lui.
Ciondola tra i sobborghi di Dortmund, Duisburg e il centro comunale per migranti di Emmerich. Qui il vicino di stanza vede che sul cellulare Amri conserva foto di combattenti vestiti di nero in posa con mitragliatori e bombe a mano. La polizia distrettuale di Kleve emette la prima “Nota di caso sospetto di islamismo” nei suoi confronti. È il 28 ottobre 2015, un anno e due mesi prima della strage di Natale.
Molte cose allarmano gli apparati di sicurezza. Un informatore della polizia, nome in codice VP01, si è infiltrato nella rete di reclutamento dell’imam iracheno salafita Abu Walaa, considerato il referente principale dell’Isis in Germania. Una figura che, per peso e influenza, l’intelligence tedesca non esita ad assimilare a quella del famigerato Abu Hamza Al-Masri, il predicatore estremista della moschea londinese di Finsbury Park. Abu Walaa e i suoi discepoli gravitano tra Dortmund e Duisburg, allungandosi fino a Hildesheim nella Sassonia del sud. Si finanziano rapinando “gli infedeli” e prestando soldi a usura. Il crimine per servire la Causa.
VP01 ha segnalato che nella rete di Walaa c’è un nuovo arrivato. Si chiama Anis, e va dicendo di voler compiere «qualcosa di grosso» in Germania. Non solo. Sostiene di voler combattere per la sua fede e di essere in grado di reperire facilmente un kalashnikov a Napoli o a Parigi.
Scattano due indagini parallele, polizia locale e detective federali si mettono sulle tracce di questo misterioso Anis. Lo pedinano per mesi, lo fotografano, ne intercettano le comunicazioni. È Amri.
Scoprono che partecipa a corsi di Corano alla “Madrasa Dortmund”, di cui ha le chiavi e dove spesso passa le notti. La scuola è guidata da Boban Simeonovic, il serbo convertito all’Islam braccio destro di Abu Walaa. Per Amri, Simenovic è una sorta di guru, che vorrebbe mandarlo al fronte in Medio Oriente, lo sottopone all’addestramento con prove fisiche e psicologiche. Gli fa percorrere sedici chilometri a piedi, con uno zaino in spalla, per abituarsi a mimetizzarsi in città. Amri obbedisce, ormai è convinto di avere una mèta. Non l’Europa, dove è rimasto il randagio che era in Tunisia, senza famiglia, né lavoro, né sistemazione. La Siria del Califfato.
Nella primavera del 2016 la polizia del Nord Reno- Westfalia classifica Anis Amri come “Gefahrder”, cioè individuo minaccioso per la sicurezza e l’integrità dello Stato. Viene fotografato mentre entra nella moschea di Hildesheim, dove predica Abu Walaa. Sul cellulare che gli sequestrano, trovano immagini sfocate di armi e le istruzioni per fabbricare una bomba artigianale. Si accorgono che chatta segretamente attraverso Telegram con due numeri libici sospetti. Dall’Italia gli investigatori ottengono la scheda redatta dalla questura di Catania, nella quale si specifica che «ha sempre evidenziato un comportamento oppositivo, ponendosi come leader».
Nei suoi rapporti di intelligence VP01 disegna una personalità ormai fuori controllo. Amri sfrutta i contatti allacciati nelle moschee per cercare un appartamento e un lavoro. È disperato, dice di volere tornare in Tunisia ma al telefono parla di compiere atti criminali. All’inizio del Ramadan, a giugno, si ubriaca e non osserva il digiuno. Insieme ai due coinquilini è tornato a spacciare, consuma ecstasy e cocaina. Si picchia con un gruppo nemico di spacciatori. Tralascia la preghiera del mattino e non partecipa alla macellazione rituale della festa del sacrificio di settembre. Cambia più volte il numero di cellulare.
«È un giovane inquieto, incostante, per niente solido», annota VP01.
In questo magma di comportamenti contrastanti, in questa continua oscillazione tra due mondi, l’infiltrato individua una determinazione.
«È a favore dell’uccisione di infedeli».
«Vuole passare all’azione».
«È radicalizzato».
Invece il Bka, la polizia criminale federale guidata da Holger Münch, fa una stima statistica del rischio, con metodi molto teutonici. Valuta il pericolo che Amri possa compiere un attentato con 6 punti su una scala di 8. «Piuttosto improbabile». Per gli analisti tedeschi la minaccia non è reale, sono soltanto chiacchiere.
La strage di Natale
«I nostri apparati di sicurezza fanno un errore di prospettiva», spiega Holger Stark, capo della redazione investigativa del settimanale Die Zeit. «Pensano a un attentato organizzato con modalità paramilitari, kalashnikov e bombe, e non lo ritengono possibile. Si dimenticano però dell’eventualità di un azione minima ma ugualmente distruttiva».
La lezione del massacro di Nizza, del camion lanciato sulla Promenade des Anglais sulla folla che festeggia il 14 luglio, non è servita. Non tengono neppure conto degli appelli assillanti che arrivano dai predicatori online ad assaltare con qualunque arma, con le pietre, con i coltelli o ad usare le automobili contro i passanti. Lo Stato islamico sta crollando in Siria e in Iraq e vuole portare il terrore nelle città europee: «Restate dove siete, colpiteli in Occidente: nelle loro case, nei loro mercati, nei loro ritrovi, nelle loro strade, dove meno se lo aspettano», scandisce il portavoce del Califfato Abu al Hassan al Muhajir. «Bruciate la terra sotto i loro piedi». Il sermone viene diffuso sui siti dell’Isis il 5 dicembre.
Poco prima di Natale, Amri passa all’azione.
La sera del 19 dicembre spara con una semiautomatica modello Erma alla testa di un autista polacco che ha parcheggiato il tir nello spiazzo di Friederich-Krause-Ufer. Sale a bordo e guida verso la Breitscheidplatz, passando davanti a una delle moschee berlinesi che da un po’ di tempo stava frequentando.
Mentre è al volante entra in una chat di Telegram. «Fratello mio, tutto va bene, Inshallah. Sono dentro il veicolo, prega per me fratello mio, prega per me».
È il suo ultimo messaggio.
Poi schiaccia l’acceleratore e sfonda le bancarelle del mercatino, trascinandole per settanta metri.
Muoiono undici persone.
Solo una collana
«Ho saputo dell’attentato da mia moglie, era il 21 dicembre. Viene a trovarmi in carcere e mi dice: “Sai chi è stato? Proprio Amri, il tuo amico che abbiamo ospitato ad Aprilia”. Non ci volevo credere. Due giorni dopo ho saputo che due poliziotti l’avevano ammazzato a Sesto San Giovanni».
Montassar Yaakoubi ancora oggi non si è dato una spiegazione plausibile per ciò che è accaduto. Neppure gli investigatori hanno individuato il momento della svolta, quello in cui un ragazzo problematico ha scelto di votarsi al massacro: ancora in questi giorni hanno arrestato a Berlino alcuni reduci dalla Siria, ritenuti essere vicini al tunisino.«Per me Amri era un buon amico. Scherzoso, sempre con la battuta pronta. In Germania gli hanno fatto il lavaggio del cervello, sono sicuro. Lui cercava soltanto di guadagnare soldi, ma ha incontrato qualcuno che lo ha sfruttato e lo ha convinto a fare questa cosa mostruosa».
Il rancore represso da una vita, le delusioni e la solitudine che lo hanno accompagnato dalla Tunisia all’Europa si trasformano in arma di distruzione. Trovando nella declinazione estrema di una fede l’unica identità, l’unica appartenenza, quella che forse aveva sempre cercato. «Indossava sempre una collana. Era l’unico regalo che gli ha fatto sua madre. Ci teneva tantissimo a quella collana».