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 2017  dicembre 15 Venerdì calendario

Molestie, la rivolta delle donne africane. «Quando una #metoo anche per noi?»

In Costa d’Avorio è motivo di vanto fare “chat noir” a una ragazza, ossia sorprenderla nel buio per abusarne. In Senegal, invece, si va fieri quando si riesce a “barbariser” una donna, che significa possederla con la forza fino a che sia così impaurita o malconcia da non potersi più lamentare. E nel Ciad le violenze femminili sono così frequenti che un collettivo femminista consiglia di ricorrere al metodo seguente: «Quando ti senti la mano di qualcuno sul sedere, girati e acchiappagli i genitali». Eppure, in Africa lo scandalo Weinstein non ha provocato reazioni. Pur essendo anch’esse vittime di abusi come in ogni altro luogo del pianeta, le africane non si sono ancora unite al coro di denuncia contro i loro aggressori.
Come spiega Caroline Diamanka, giornalista senegalese, l’Africa è piena di Weinstein. «Ma qui, noi donne siamo ancora considerate poca cosa e la grande maggioranza degli abusi rimane impunita. Dalla studentessa alla segretaria hanno tutte in vita loro subito violenza almeno una volta e quasi nessuna ha denunciato il suo aggressore». Quando le chiediamo perché non c’è stata in Africa un’adesione al movimento planetario di denuncia, Diamanka risponde: «Perché qui le accuse di molestie hanno poco peso, ed è meglio parlarne tra di noi, per trovare magari il modo di non cascarci una seconda volta».
A Nollywood, la Hollywood nigeriana, è consuetudine considerare il corpo femminile come merce di scambio. Lo sostiene l’attrice e regista Omoni Oboli, secondo cui è quasi impossibile che una giovane promessa riesca a girare il suo primo film senza pagare l’immondo pedaggio. «Anch’io sono stata brutalmente aggredita da un regista. Da quel giorno, ho sempre chiesto a mio marito di accompagnarmi ai casting». L’avvocatessa congolese Sara Sney sostiene che in molti Paesi africani si parli della sessualità più liberamente che altrove, con meno ipocrisie e tabù. «Il rovescio della medaglia è che gli uomini si sentono più liberi di comportarsi come dei porci. Detto questo, pur scandalizzandomi ogni volta che vengo a sapere di una giovane impiegata o di una povera operaia molestata da un superiore, non mi sento di condividere la solidarietà manifestata in Occidente per quelle star del cinema che dopo vent’anni denunciano il regista che le ha lanciate».
Per Afia Maga, ricercatrice in sociologia dell’Università di Porto- Novo, nel Benin, è più che mai necessario che le africane denuncino ogni sopruso «anche quando i colpevoli di queste violenze sono, come spesso capita, dei parenti stretti, dei vicini di casa o degli amici di famiglia». Se la campagna # metoo sui social sta dando frutti in Occidente, la ricercatrice si dice convinta che possa funzionare anche lì. «Ma in Africa ci sono anche milioni di donne vittime di imam o di capo villaggio, che con una fatwa o una legge fabbricata ad hoc possono costringerle a sposare il loro violentatore. In quelle realtà, la molestia è lecita perché istituzionalizzata. A quando un hashtag anche per loro?».