Corriere della Sera, 14 dicembre 2017
L’anima dolce del Settecento quando la pasticceria lasciò la cucina
Si fa leggere sempre con lo stesso interesse Il brodo indiano. Edonismo e esotismo nel Settecento di Piero Camporesi che, edito trent’anni fa (nel 1989) da Garzanti e ora ripubblicato, con prefazione di Franco Cardini, da Il Saggiatore, rivela una insospettabile ma evidente freschezza di taglio e di motivi.
È, in sostanza, una ricostruzione del gusto e della cucina nel secolo, il Settecento, che segnò l’affermazione dei cuochi, dei piatti, delle tecniche e della prassi culinaria francese in Europa. È l’ultimo atto, per così dire, di quel trasferimento del termometro europeo dell’eccellenza e dell’eleganza dalle rive del Tirreno e dell’Adriatico a quelle della Senna, che aveva già riguardato tante altre cose della civiltà moderna d’Europa.
Al criterio dell’abbondanza si sostituì quello dell’elaborazione dei cibi (ma la quantità ne soffrì ben poco). I sughi e le salse si imposero sulle vivande non più come contorni, ma come senso principale e matrice del sapore dei piatti da consumare. Alla unidirezionalità del banchetto barocco e rinascimentale subentrò un’articolazione (frantumazione, dice Camporesi) del consumo di cibo secondo le ore, il luogo, le stagioni e le occasioni del consumo; e questa articolazione determinò pure un nuovo e molto maggiore protagonismo di monsieur il cuoco francese (a Napoli lo si chiamava sempre, quale che ne fosse il nome, monzù, come diciamo il mister per gli allenatori del calcio).
Se questo fu il contesto e il senso generale di quel gran secolo, a esso si accompagnò un’estensione notevole dell’esotismo dei cibi e del cosmopolitismo dei gusti che era in corso, e che Camporesi documenta riccamente e in maniera spesso anche amena. Esotismo e cosmopolitismo che non erano riservati solo ai cibi. Nella precedente età barocca si era diffuso, tra infinite discussioni, l’uso del tabacco, preso per il naso o fumato o usato per i clisteri.
Nel Settecento vi fu il trionfo definitivo e generale del caffè, del tè e, in particolare, del cioccolato (il «brodo indiano»: delle Indie di Colombo, americane, non di quelle, autentiche, di Vasco de Gama). Trionfò ugualmente lo zucchero con «veri capolavori dell’ingegneria credenziera», e la pasticceria diventò un’arte a sé, distinta da quella della cucina. Vi fu l’affermazione di gelati e bevande fredde, vincendo il pregiudizio che il freddo nuocesse ai visceri. Comparve o si diffuse molto di più la frutta esotica (così, ad esempio, l’ananas); e così fu pure per i vini del Sudafrica (affiancati al Tocai come migliori di tutti ma Bacco, nota Camporesi, ebbe a soffrire molto per la concorrenza delle nuove bevande). Venne di moda la Cina, coi suoi cibi oltre che per le tante chinoisérie.
Tutto questo, non del tutto placidamente. Le discussioni sul mutamento dei gusti furono accese. Vi entrava pure la religione. Il cioccolato era collegato ai Gesuiti, il caffè al Nord protestante, il tè all’uso borghese inglese: ma poi, di fatto, le carte si mescolavano molto. La frugalità italiana (coi suoi vini, la polenta, eccetera) veniva contrapposta alla finezza e ricchezza culinaria francese. E, sullo sfondo, una nuova fisiologia, fondata sulla centralità non più del fegato, ma del cuore.
Poi, con la rivoluzione del 1789, tutto il complesso di civiltà della tavola venne meno, si passò alla «grigia cucina dell’età romantica», dice Camporesi, e le meraviglie prerivoluzionarie «dileguarono anche nel ricordo». Come si sa, la pensava così anche un espertissimo di piaceri e raffinatezze, Talleyrand, per il quale chi non aveva conosciuto il mondo del «vecchio regime» non poteva sapere che cosa fosse la douceur de vivre, il dolce della vita. Ma la storia è sempre complessa: il grigiore romantico e l’anonimato del Novecento sono già un ricordo felicissimo a petto del fast food degli autogrill e delle grandi catene della ristorazione.