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 2017  dicembre 14 Giovedì calendario

Morgan Stanley offre solo 30 milioni per chiudere lo scandalo derivati

Trenta miseri milioni.
Contro i 2 miliardi e 780 milioni di danno erariale per cui la Corte dei conti l’ha citata in giudizio. Trenta milioni per metterci una pietra sopra: è la proposta informale che la banca d’affari Morgan Stanley ha sussurrato nella speranza di evitare il processo intentato a suo carico dalla procura contabile e già fissato per il prossimo aprile su quella vicenda dei derivati di sei anni fa. La proposta, manco a dirlo, non è stata presa nella minima considerazione. Perché se un sistema per evitare di finire alla sbarra esiste, ed è stato introdotto un anno fa estendendo la filosofia del rito abbreviato ai procedimenti della Corte dei conti, le cifre sono un po’ diverse. Si parla infatti non dell’uno, ma del 50 per cento.
Nella fattispecie, quasi 1,4 miliardi. Che di questi tempi non si buttano via. Della storia che ha originato il provvedimento si è a lungo parlato. Siamo a fine 2011, la crisi finanziaria imperversa, Silvio Berlusconi va a casa e al suo posto arriva a palazzo Chigi Mario Monti. Il quale trova subito una brutta sorpresa: Morgan Stanley, che è anche consulente del Tesoro per il debito pubblico ed è fra gli specialisti del ministero dell’Economia per i titoli di stato, decide improvvisamente di rescindere una serie di contratti di finanza derivata innescati addirittura nel 1994. All’epoca in cui il dirigente responsabile a via XX settembre che li ha firmati era Mario Paolillo deceduto molti anni dopo. E il governo italiano deve tirare fuori, sull’unghia, 2 miliardi e 567 milioni mentre sta chiedendo sacrifici inenarrabili ai pensionati per far quadrare i conti.
Ma non è soltanto questa la ragione per cui è davvero una storiaccia. Il fatto è che ha messo in seria crisi un principio fondamentale nella gestione della cosa pubblica: che con i soldi dei contribuenti non si gioca d’azzardo. Per giunta, senza avere alcuna possibilità di vincere. Ecco l’accusa ustionante che nella sostanza la Corte dei conti muove, sia pure con sfumature anche assai diverse come si può intuire dagli addebiti individuali, nei confronti degli alti dirigenti del Tesoro italiano coinvolti a vario titolo nella vicenda e chiamati in causa insieme alla banca d’affari americana. C’è la dirigente del debito pubblico Maria Cannata, citata per 982,5 milioni. C’è Vincenzo La Via, oggi direttore generale del Tesoro (95,9). C’è Vittorio Grilli, ex Ragioniere dello stato, ex direttore generale e poi ministro dell’Economia (19,9). Infine, c’è Domenico Siniscalco, anch’egli ex direttore generale del Tesoro ed ex ministro dell’Economia (84,7): e qui la Corte dei conti non manca di sottolineare un dettaglio. Cioè che dopo aver lasciato l’incarico a via XX settembre viene ingaggiato proprio dalla Morgan Stanley, filiale londinese, di cui ancora oggi è rappresentante per l’Italia. E viene assunto, Siniscalco, cinque mesi prima della scadenza del limite di legge che vieta ai ministri per almeno un anno di assumere incarichi confliggenti con il ruolo istituzionale ricoperto. Ma siccome la legge non prevede sanzioni, la cosa finisce a tarallucci e vino.
La stima totale del danno è 3 miliardi 943 milioni 913.732 euro e 13 centesimi. Per farsi un’idea sul modo incredibile in cui è stato impiegato in questo frangente il denaro pubblico, invece, è illuminante leggere le carte. Nella citazione firmata dal viceprocuratore generale Massimiliano Minerva sono raccontati fatti sbalorditivi.
Cominciamo dalla ciliegina sulla torta: 86,2 milioni che il Tesoro, a coronamento del mega salasso, riconosce a Morgan «a titolo di non meglio precisati “costi di hedging”, nonostante la cancellazione delle operazioni avvenga nel suo interesse e su sua iniziativa».
È il 22 novembre del 2011, Monti ha giurato da sei giorni, lo spread fra Btp e Bund tedeschi è a quota 489 dopo il picco massimo di 574 del 9 novembre. Mentre i conti pubblici danzano pericolosamente sull’orlo del baratro arriva al Tesoro una lettera della Morgan che annuncia l’attivazione della clausola «Ate», che sta per «Additional termination events», presente in quei contratti. È un codicillo che consente alla banca di chiudere i contratti unilateralmente e riscuotere il denaro qualora la sua esposizione verso lo Stato italiano superi un determinato livello. Durante l’istruttoria saltano fuori particolari sconcertanti. Intanto che quel tetto è stato oltrepassato da almeno dieci anni, e Morgan Stanley non ha mai alzato un dito. Inoltre la clausola, esistente dal 1994, fino al 2007 rimane praticamente sconosciuta a chi si deve occupare della questione. Di più: il 3 marzo 2014 Maria Cannata dichiara al procuratore contabile che «si era certi e convinti che la clausola non sarebbe mai stata attivata».
Tuttavia ci sarebbe ancora un modo per evitare di infilare la testa nel cappio, cioè l’esistenza di coperture «collaterali». Che però nessuno ha provveduto ad attivare, nonostante il livello elevatissimo dell’azzardo insito in quei derivati denominati «swaption». Di tale termine non esiste neanche una traduzione italiana, e del resto per quanto possa sembrare assurdo non esiste neppure una versione in lingua italiana di quei contratti.
Ma il succo lo spiega in poche parole la citazione della Corte dei conti: «Mentre i profitti massimi sono limitati al premio ricevuto, le possibili perdite sono di norma illimitate. In sostanza, a fronte dell’incasso di una somma definita, pari al premio dell’opzione, il Mef assume un impegno a restituire una somma non definibile».
L’uso accorto dei derivati dovrebbe in teoria servire a limitare il rischio di cambio.
Invece in questo caso, dice la citazione, siamo in presenza di «scommesse dove il perdente era già deciso in partenza».
Tanto più alla luce di in un contesto generale poco rassicurante con database, software e «strumenti di risk management» non proprio adeguati. Il risultato è che per uno solo di quei contratti il Tesoro ha incassato la caramellina di 47 milioni di premi dovendo poi pagare alla Morgan Stanley un miliardo e 350 milioni dei contribuenti.
Al culmine della catena di errori e «imprudenze», al ministero rimarrebbe comunque una estrema carta da giocare.
Ovvero, trascinare la banca in tribunale. Con un grosso vantaggio: gli accordi prevedono che il foro competente sia quello di Roma, anziché Londra come di consueto.
E qui ci sono le sabbie mobili. Ma nessuno fa nulla. Non si chiedono pareri, né si consulta l’ufficio legislativo del ministero o l’avvocatura dello Stato. Si paga e basta. E accettando le modalità in due fasi predisposte da Morgan Stanley: uno scherzetto che ha costretto il Tesoro a versare «aggiuntivamente soltanto a questo titolo» alla banca la bellezza di 527 milioni. L’ultimo regalino. Per dovere di cronaca, va detto che Morgan Stanley figura tuttora nell’elenco degli specialisti in titoli di stato del ministero dell’Economia.
L’ultimo rinnovo è del dicembre 2015, a firma Maria Cannata.