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 2017  dicembre 13 Mercoledì calendario

«Gerusalemme agli arabi». Così l’asse Erdogan- Putin si prende il mondo islamico

Beirut Sembrava (politicamente) finito, alle prese con un Paese diviso e minacciato da nemici potenti. Invece, miracolosamente riportato in vita da Vladimir Putin, il presidente turco Erdogan si presenterà oggi alla Conferenza della Cooperazione islamica, di cui la Turchia ricopre la presidenza di turno, come il nuovo Saladino, in grado di riportare Gerusalemme nel suo contesto arabo e islamico dopo lo strappo prodotto da Trump.
I ministri degli Esteri dei cinquanta e più paesi islamici che hanno detto sì alla conferenza straordinaria su Gerusalemme Capitale sono già al lavoro per elaborare una strategia unitaria. Ma è difficile che Erdogan riesca a far digerire a tutti la linea dura nei confronti d’Israele che ha caratterizzato le sue reazioni («stato terrorista che uccide bambini») e Trump di essere complice di Netanyahu, oltre che di voler «precipitare il mondo in un incendio senza fine». Parole degne della più intransigente propaganda iraniana, si direbbe.
Tanto per mantenere alta la tensione alla vigilia, il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, criticava «la debole» reazione araba alla mossa di Trump e la «timidezza» di certi Paesi «che sembrano preoccupati di non far arrabbiare gli Stati Uniti». Anche se Cavusoglu non ha fatto nomi, con ogni probabilità alludeva all’Arabia Saudita. Emirati Arabi Uniti e, forse, anche all’Egitto. In effetti, tra gli obiettivi della protesta esplosa in questi giorni nelle piazze arabe c’è anche il principe ereditario saudita, Mohamed bin Salman (Mbs) che alcuni vogliono connivente con la scelta di Trump su Gerusalemme. E questo nonostante Riad, a caldo, abbia definito inaccettabile la decisione di Trump.
L’incertezza che circonda il livello della delegazione saudita riflette un certo disagio nel decidere da chi farsi rappresentare, vista la passerella che Erdogan offrirà al presidente iraniano, Hassan Rouhani, il nemico n.1 di Riad e l’ultimo componente del terzetto messo su dal Cremlino per fronteggiare gli sviluppi della crisi in Siria. Lo “schema-Putin”, risultato finora vincente nella guerra siriana, prevede che siano Turchia e Iran, con la regia di Mosca, a cercare una soluzione negoziata del conflitto e a gestire la ricostruzione del Paese. Oggi a Istanbul si parla d’altro, ma proprio perché la guerra in Siria sembra al momento scemare d’intensità, e quella in Iraq è uscita dai monitor, ecco che ritorna prepotentemente alla ribalta il padre di tutti i conflitti, quello che da 70 anni contrappone israeliani e palestinesi.
Quest’improvvisa e pericolosa impennata, ovviamente, non ci sarebbe stata senza lo strappo di Trump su Gerusalemme. S’è visto nei giorni scorsi quanto Putin sia stato lesto a profittare della nuova crisi per guadagnare peso regionale e immagine globale. Oggi, la necessità di mantenere i buoni rapporti sempre avuti con Israele gli impone di mantenersi un po’ in disparte e mandare avanti Erdogan in veste di guastatore, salvo intervenire per calmare gli animi. Putin ha bisogno del Sultano per rispettare la promessa di ritirare le truppe russe dalla Siria e il Sultano ha bisogno dell’appoggio di Putin per poter tenere i curdi siriani, appoggiati dagli americani, lontani dai suoi confini.