la Repubblica, 13 dicembre 2017
L’amaca
Ma quanto è bella la galaverna che imbianca l’Appennino (il nome tecnico sarebbe gelicidio, ma la parola galaverna suona così bene che è un delitto non usarla).
È bella e disagevole, come è l’inverno vero. Lo schianto dei rami più grossi si sente a chilometri, sono mazzate che si abbattono sui cavi della luce e interrompono il flusso di energia al quale tutti viviamo appesi come il lungodegente intubato.
Si ferma il freezer, il riscaldamento, non si ricaricano più telefoni e computer, non c’è più internet, con le residue tacche del cellulare si telefona in Comune, all’Enel, agli amici, a chiunque, per sapere quando diavolo finirà questa interruzione di civiltà. Si mandano quattro accidenti (spesso meritati) all’Enel, che noi di montagna ci considera clienti di ripiego, dei rompiballe appollaiati in cima a strade balorde, in mezzo ai lupi e in mezzo a quella commovente assenza di case che rende la nostra riconoscibile anche dal finestrino degli aeroplani. Poi si fa come i nostri nonni, si accende il fuoco a legna, si fa bollire l’acqua per le boule, si aggiungono coperte, si cercano le candele in fondo ai cassetti. Come una bolla che a farla esplodere basta uno spillo, la civiltà arretra di un secolo in un minuto. Ci si sente viziati ma ci si scopre abbastanza forti da sopravvivere a quindici gradi invece di venti (eroici!).
Stasera, poi, senza tivù e computer, ci aspetta la più temeraria delle prove.
Dovremo provare a parlare tra noi.