Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 13 Mercoledì calendario

La divina solitudine di Greta Garbo

Era la solitudine o l’assedio attorno a lei a farla soffrire? Preferiva camminare sola su una spiaggia deserta o sbarcare a Capri dallo yacht di Onassis, inseguita da Winston Churchill? Amava le donne o gli uomini o tutti e due? E lei era amata dalle donne, dagli uomini o più sinceramente dagli omosessuali, soprattutto se intellettuali, come Gore Vidal e Cecil Beaton? Fuori dalla magia dello schermo in bianco e nero, era meravigliosa o insignificante?
Era generosa o tirchia? Si comprava i Renoir perché le piacevano o perché era doveroso averli nel suo appartamento di New York rosa salmone, con le librerie piene di libri rilegati tutti uguali e che probabilmente non aveva mai letto? Era lei quando negli anni ’30, ridente e vestita da operaio segava i tronchi d’albero nel parco di Tistad Castle ospite degli amici svedesi o quando Inge Feltinelli, ed era il 1952, le scattò la celebre foto in una strada di New York, un’anonima signora sola e irriconoscibile, raffreddata, con un fazzoletto in mano, un brutto cappello a cono schiacciato sulla fronte e un cupo cappottone informe? Greta Garbo non ha mai concesso un’intervista, eppure sono uscite decine di storie della sua vita, oltre che una marea di libri iconografici, gli unici affidabili, delle sue Margherite Gauthier, Regina Cristina, Anna Karenina, Ninotchka. Non ha mai firmato autografi, risposto alle lettere dei fan, partecipato a prime dei suoi film: molto raramente accettava inviti a casa dei colleghi. Non voleva essere Greta Garbo al di fuori del set: «Sono capace di esprimere me stessa solo attraverso i miei ruoli, non a parole. L’artista dovrebbe essere uno spirito raro e solitario.
Il lavoro mi assorbe completamente e non ho tempo per altro». Sotheby’s a Londra ha messo all’asta ieri 36 lettere che Greta Garbo inviò alla sua amica svedese contessa Märta (Hörke) Wachtmeister nel cui castello a Tistad, a sud di Stoccolma, passava le estati, più un album con un centinaio di fotografie amatoriali là scattate alla diva solitamente musona e solitaria e qui tra gli amici, sorridente e felice. Sono lettere quasi tutte scritte ordinatamente a mano con la matita, non sempre firmate, inviate negli anni di Hollywood, quelli della celebrità mondiale, descrivendo il peso di quella vita, la nostalgia della campagna svedese, persino della sua pioggia e della “sua meravigliosa malinconia”. La Diva Assoluta che guadagna milioni di dollari ed è certo la più venerata, in queste lettere rivela uno dei suoi tanti misteri, l’isolamento, la reclusione, la lontananza dagli altri che si impone quotidianamente fuori dal lavoro: scrive, «parlo da sola e vivo nel ricordo di Tistad». Ironizza sui pettegolezzi che la assediano: «tra le tante assurdità mi hanno fatto sposare 759 volte». Commenta le notizie sull’abdicazione di re Edoardo «Cara Mrs Simpson i suoi giorni sereni sono finiti, sarà perseguitata ovunque vada. Spero che le bande di fotografi la terrorizzeranno al punto da costringerla a lasciare in pace il mio re». Parla soprattutto di cinema, dei suoi film, del suo lavoro che è in realtà la sua unica passione, la sua realtà, quei set ancora rustici, quei registi geniali, quel mondo dell’incantesimo che di una commessa sgraziata e grassoccia, rigida e coi piedoni, ha fatto la donna più bella e desiderabile del mondo; quella che lei sa di non essere lontano dall’artificio cinematografico.
All’amica racconta di non avere alcuna fiducia in se stessa e molto si preoccupa dei film che sta girando, come La Regina Cristina: «giorni difficili, tutto sembra andare storto, io non ne posso; sono molto preoccupata per come sarà accolto in Svezia». Con la lettera del 21 agosto 1941 racconta il suo disappunto per i cambiamenti portati a Non tradirmi con me: «Ma visto che io preferisco passeggiare nella campagna invece che occuparmene, il film sarà quel che sarà». Era il suo diciannovesimo film e lo aveva diretto l’amabile George Cukor, coprotagonista Melvyn Douglas: e fu anche l’ultimo. Il tentativo di fare della Garbo una sciocchina sexy e ricciolona, che balla la rumba e nuota, di farne una donna qualsiasi, e non un sogno, fu un drammatico fallimento. Per lei imperdonabile e incancellabile: aveva 36 anni, lasciò Hollywood per sempre, si stabilì a New York e cominciò a viaggiare per l’Europa, sempre un cappello o una sciarpa per nascondere il viso ai fotografi, concedendolo solo a Cecil Beaton, spesso un uomo accanto a proteggerla, come il finanziere George Schlee, durante i tanti inviti in case principesche e barche miliardarie. La celebrità l’aveva costretta alla solitudine, l’anonimato la restituiva alla libertà e agli amici. Nel dicembre 1945 quattro anni dopo il suo ultimo film: «Sto prendendo in considerazione la possibilità di lavorare ancora, ma non ne sono sicura: il tempo lascia tracce sul viso e sul corpo». Alla fine disse no anche a Ingmar Bergman e a Luchino Visconti.