la Repubblica, 13 dicembre 2017
Andremo a votare il 4 marzo, ecco l’intesa tra Colle e partiti
La road map che chiuderà la legislatura è ormai definita. La data delle prossime elezioni politiche è stata concordata. Non formalmente. Ma nei contatti ufficiosi che il Quirinale intrattiene con le forze politiche, l’indicazione offerta a Sergio Mattarella è stata univoca. A meno di sorprese dell’ultimo momento, le urne si apriranno dunque il prossimo 4 marzo. Una data che persino al vertice di ieri al Colle tra il Capo dello Stato e il governo in vista del prossimo Consiglio europeo di Bruxelles, veniva considerata ormai segnata. In queste settimane Paolo Gentiloni si è sistematicamente appellato alla «conclusione ordinata della legislatura». Del resto il suo compito, concordato con il presidente della Repubblica è stato quello di far approvare in Parlamento le leggi indispensabili per poi andare subito dopo al voto. E quell’impegno viene considerato quasi raggiunto. L’ultima tappa “fondamentale” è rappresentata dalla legge di Bilancio. Che rappresenta il vero spartiacque della legislatura. La manovra economica, infatti, nel virtuale calendario istituzionale dovrebbe essere approvata alla Camera il prossimo 20 dicembre.
A quel punto il varo definitivo spetterà al Senato che ha già cerchiato con la matita rossa il suo scadenzario: venerdì 22 dicembre ci sarà l’ultimo via libera. A quel punto tutti i passaggi obbligatori saranno terminati. Per il capo dello Stato, da quel momento ( se ci fosse un ritardo, tutto slitterebbe) è possibile sciogliere.
Ci sono però delle questioni, essenzialmente di galateo, che indurranno il Colle a non ufficializzare la decisione prima di Natale. Intanto perché la legge di Bilancio dovrà essere valutata dagli uffici della presidenza della Repubblica e quindi pubblicata dalla Gazzetta ufficiale. E poi perché Mattarella preferirebbe compiere quel passo dopo la tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio. Con ogni probabilità, allora, il tempo scadrà negli ultimi giorni di dicembre. E poi motiverà le sue opzioni nel discorso di Capodanno.
Ma come mai le forze politiche in larga maggioranza hanno espresso la loro preferenza per la data del 4 marzo? Questa domenica in realtà è stata a lungo in ballottaggio con quella del 18 marzo. Ci sono due fattori che hanno spinto per questo anticipo. Entrambi legati all’organizzazione della prossima campagna elettorale. Il primo riguarda la candidatura dei sindaci. Secondo la legge, i primi cittadini dei comuni sopra i 20 mila abitanti possono concorrere a un seggio della Camera o del Senato se si dimettono 180 giorni prima della scadenza naturale della legislatura o in caso di elezioni anticipate di almeno 120 giorni. Nel 2012 venne approvato un decreto che eliminava questo impedimento. In previsione di un analogo provvedimento, allora, i partiti hanno insistito con il Quirinale per non allungare i tempi e rendere così politicamente giustificabile una norma che “sospende” la legge del 1957. Il vaglio su un decreto del genere infatti non potrebbe che basarsi su un numero sufficiente di giorni che precedono la fine della legislatura.
Lo stesso criterio è stato seguito per un’altra questione che attanaglia alcuni dei partiti – quelli più piccoli – intenzionati a presentare le liste per la prossima tornata. Le formazioni che non sono presenti in Parlamento hanno infatti un preciso obbligo di legge per depositare simbolo e candidati: devono raccogliere un consistente numero di firme. Un argomento trattato pure nel recente incontro a palazzo Chigi tra il premier e la delegazione dei Radicali. Già il cosiddetto Rosatellum prevedeva tra le norme transitorie una disposizione che dimezzava – solo per questa elezione – il numero di sottoscrizioni da rastrellare (26 mila per collegio). Ma a Montecitorio, proprio nella legge di Bilancio, è stato inserito un emendamento che lo dimezza ulteriormente. Una correzione, anche questa, giustificabile solo con i tempi ristretti della campagna. E con la stagione invernale in cui si raccoglieranno queste firme.
Al Quirinale sono ormai convinti che questo Parlamento, una volta licenziata la legge di Bilancio, non sarà in grado di fare null’altro. I provvedimenti in agenda possono essere approvati in extremis solo in questi giorni che precedono il Natale.
E del resto, a questo punto si tratta di uno scioglimento anticipato delle Camere solo dal punto di vista tecnico. Mattarella avrebbe dovuto aspettare il 15 marzo per chiudere la legislatura a scadenza naturale. Ma è evidente che non ci sono più le condizioni per tenere in vita artificialmente la Camera e il Senato fino a quella data.
Però su un punto Mattarella è irremovibile. Gentiloni non dovrà dimettersi per autorizzare lo scioglimento del Parlamento. Gli uffici della presidenza della Repubblica hanno verificato alcuni precedenti che consentono al governo di non rassegnare le dimissioni e quindi mantenere la pienezza di tutti i poteri in presenza di una interruzione “tecnica” e non “politica” delle Camere. È un modo soprattutto per cautelarsi rispetto alle previsioni che tutti fanno sul dopo voto. L’esempio spagnolo o tedesco sta diventando una lezione anche per l’Italia. E Gentiloni potrebbe essere chiamato a gestire una lunga transizione. Meglio allora un governo non dimissionario.
Certo, quando si insedierà il nuovo Parlamento il presidente del Consiglio dovrà comunque rassegnare le dimissioni per rispetto nei confronti delle Camere neoelette. Ma per le decisioni che dovrà assumere il Quirinale, un conto è il “rispetto” nei confronti dei nuovi parlamentari, un altro le dimissioni provocate da una sostanziale sfiducia.