La Stampa, 12 dicembre 2017
Francesco De Sanctis contro l’antipolitica. Il bicentenario del grande storico della letteratura e patriota
Nel gennaio 1875 il quasi sessantenne Francesco De Sanctis deve intraprendere un duro viaggio elettorale nei paesi più remoti delle sua Irpinia, fra gelo e neve, a dorso di mulo per strade impervie e fangose. È un ritorno alle radici, un viaggio sentimentale in cui ritrova parenti e vecchi amici, ma anche un’esperienza sociologica e antropologica, che nutre una serie di vivaci cronache giornalistiche pubblicate su
La Gazzetta di Torino
e poi raccolte in volume l’anno dopo.
La vivacità quasi colloquiale del dettato rende affabile il dialogo con il lettore. Il Viaggio elettorale sembra scritto ieri, fornisce la radiografia di un Sud immutabile, devastato dal clientelismo e dal familismo, ma parla anche di quello che dovrebbe essere la politica e non è. De Sanctis si ritrova a fare i conti con una schiera molesta di capetti locali, deputati voltagabbana, preti maneggioni, cinici proprietari terrieri, grigi burocrati, avvocaticchi ambiziosi, vescovi faccendieri, prefetti e magistrati dotati di scarso senso dello Stato. Il candidato annota lucidamente che tutti costoro «non liberano l’individuo bensì lo strutturano in vincoli dove contano le parentele arcaiche, dove il legame societario della gratitudine non permette una vera emancipazione». Cerca di esorcizzare l’amarezza di accoglienze fredde o impacciate con l’ironia, con bozzetti parodistici. «Tutti questi sovrani hanno poi chi è sopra a loro, e li fa ballare, ed essi credono di ballare loro, e ballano il ballo suo. Ciascuno di questi centri ha qualche ricco sfondolato, qualche leguleio cavilloso, qualche camorrista, che anche in America ci sono i camorristi, un sopracciò che comanda a bacchetta e lì è la chiave. E il punto sta ad indovinare la chiave». Un’Irpinia archetipica che è anche lo specchio del Paese.
Tra le sue preoccupazioni c’è proprio quella di una educazione politica degli intellettuali, la qualità della futura classe dirigente. L’antipolitica, a partire dai distacco dei colti, era già in quegli anni un fenomeno chiaramente percepibile. Si guardava «con una certa aria di diffidenza e quasi di disprezzo gli uomini politici, come se la politica fosse privilegio di pochi e non dovere di tutti». E peggio ancora, prendeva piede la concezione per cui «non si può essere insieme un uomo politico e un uomo onesto». Già allora notava con preoccupazione un’atonia politica che era peggiore del malcontento. La stessa educazione che allora si forniva era infestata di troppa retorica, e dunque diventava presto inefficace.
La sostanza della vera politica sta «nel mondo studiato dal vero e dal vivo». Come può intendere, aggiungeva, chiunque sappia conservare fiducia e sia ancorato al proprio senso morale e possegga «la virtù dell’indignazione». E precisava: «La vita è azione; ma solo la dignità è la chiave della vita, e l’onestà la prima qualità dell’uomo politico». Malgrado delusioni e sconfitte elettorali, rimaneva persuaso che la politica è soprattutto ed essenzialmente dignità.
È per queste ragioni che Fran
cesco De Sanctis resta un padre fondatore, un misto di lucido realismo e fervore progettuale, di etica e pragmaticità: un modello di saldatura tra impegno politico e cultura favolosamente remoto, forse irraggiungibile, di certo irrinunciabile.