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 2017  dicembre 12 Martedì calendario

Keaton, sei tu il più forte

Quello che aveva da dire, Keaton Jones l’ha detto a sua madre e a oltre venti milioni di persone. Keaton è americano, del Tennessee, è adolescente, e un tumore gli ha lasciato qualche segno. La madre, tornando in macchina da scuola, ha registrato in un video il suo sfogo. Keaton, in lacrime, parla delle prese in giro di cui è stato vittima: «Mi dicono che sono brutto, che non ho amici, mi prendono in giro per il mio naso». Piange. E racconta che a mensa gli hanno versato del latte addosso, messo del prosciutto fra i vestiti, tirato del pane. All’inizio del video domanda: «Perché lo fanno? Qual è il punto?».
La valanga di visualizzazioni ottenute ha innescato una gara di solidarietà delle star del cinema, della musica, dello sport. Ma le parole di Keaton sono qualcosa di più che il pretesto di una pur generosa azione “natalizia”. Portandoci nell’abitacolo della macchina con cui sta tornando da scuola, ci costringono a uno sguardo diverso – meno distratto e meno approssimativo del solito. Parlare genericamente di bullismo non significa quasi niente. Vedere Keaton che piange disperato, significa invece qualcosa.
Sei nell’abitacolo, sei lì: impotente come sua madre. Oppure sconfortato come lui, se ti è capitato di conoscere quel tipo di mortificazione. Oppure, forse, con un minimo di rimorso dentro, se sei stato tra quelli che mortificano. E che spesso, dei gesti o delle parole che fanno male, non vedono gli effetti più profondi. Hanno già girato i tacchi. Sono già a sghignazzare altrove. L’abitacolo in cui Keaton piange non esclude nessuno – e questo fa la differenza. Tanto più nella Rete: il regno del sarcasmo imperituro, del bullismo mentale. Il pianto del ragazzino Keaton sembra bloccare per un minuto e qualche secondo – tanto dura il video – l’impegno planetario, capillare e quotidiano nel dare il peggio di sé. Ma è solo un’impressione, un’illusione. La macchina di Keaton è arrivata a casa. La macchina delle offese gratuite, delle parole pesanti si è già rimessa in moto.
Però Keaton, senza saperlo, ha vinto lo stesso. Oltre venti milioni di umani – per un minuto e pochi secondi, in un giorno di dicembre – davanti a un ragazzino del Tennessee non erano una folla. Non erano un gruppo o una vastissima ghenga – il che, spesso, offre la posizione più comoda da cui mollare ogni responsabilità, ogni presa a cuore. La posizione più comoda e protetta per cui essere bulli, per cui essere niente. Una somma da venti milioni è stata sciolta nei singoli addendi: uno per uno, uno alla volta, ciascuno di fronte a Keaton. Quando dice: «Non va bene», «perché si divertono e trovano un modo per essere cattivi?», «non mi piace che lo facciano a me e nemmeno ad altre persone, perché non va bene». Quando dice: «Cercate di essere forti», «è difficile», «forse un giorno andrà meglio».
Keaton ha vinto comunque, perché ha fatto di quell’abitacolo uno spazio diverso. Lo spazio in cui il tuo prossimo non è un’astrazione, è davvero prossimo; e le conseguenze di un gesto, di una parola, di un silenzio si leggono su un volto uguale al tuo, non nelle cifre amorfe di una statistica. Lo spazio in cui qualunque ghigno risuonerebbe del suo vero suono, feroce e idiota. Lo spazio in cui due che stanno al mondo, senza distanze di sicurezza, sono tenuti a guardarsi nel modo più semplice e più impegnativo – l’unico davvero sensato: niente di più, ma anche niente di meno, che come due esseri umani.