la Repubblica, 12 dicembre 2017
Il giorno in cui Putin diventò lo zar del Medio Oriente
Mosca La Russia torna superpotenza in Medio Oriente. Vladimir Putin non lo rivendica a parole, ma con un tour diplomatico studiato ad arte. Le tappe: Siria, Egitto e Turchia in un sol giorno, a dimostrare l’ampiezza e la varietà di alleanze nella regione. E la tempistica: una risposta alla decisione unilaterale di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele alla vigilia della Conferenza dell’Organizzazione dei Paesi islamici a Istanbul. Putin si è presentato ancora una volta come “Fixer in capo”, colui che colma i vuoti dell’Occidente e rimedia ai suoi errori. Una veste che indossa anche in vista delle presidenziali russe di marzo.
Il viaggio è iniziato con una visita a sorpresa a Hmeimim, nei pressi di Latakia, laddove tutto è iniziato nel settembre 2015 con l’intervento militare in Siria. «Abbiamo dimostrato la grandezza del nostro esercito e della nostra marina. Abbiamo aiutato il popolo siriano a preservare la sua indipendenza. Abbiamo sconfitto l’Isis», ha detto Putin, alla presenza del presidente Bashar Al Assad, annunciando il ritiro di «una parte significativa» del contingente russo. Non un disimpegno. La Russia non solo ha difeso la sua presenza navale a Tartus, si è assicurata anche la base aerea di Hmeimim, scongiurando lo spettro di un secondo Afghanistan.
Con la sua lealtà a ogni costo ad Assad, Putin ha marcato una distinzione tra sé e gli Stati Uniti guadagnandosi il rispetto di tradizionali alleati americani nella regione, come l’Egitto e la Turchia. Ieri, nella seconda tappa del tour, con Abdel Fatah Al Sisi ha firmato un accordo sulla prima centrale nucleare egiziana a Dabaa, che va a sommarsi alle intese già siglate in passato sulla vendita di armi russe e al trattato preliminare sull’uso delle basi aeree egiziane. Ma ha rinviato a febbraio la ripresa dei voli diretti sospesi due anni fa dopo l’attentato all’Airbus russo in Sinai.
Anche in Turchia Putin è stato abile a ribaltare a suo favore con pragmatismo la crisi dell’abbattimento di un jet russo da parte dell’aviazione turca nel novembre 2015. Quello di ieri, a conclusione del suo viaggio, è stato il settimo faccia a faccia dell’anno con Recep Tayyip Erdogan.
Putin ha gettato le basi per un nuovo round di colloqui tripartiti con l’I-ran sulla Siria ad Astana e per un secondo incontro tra i leader della “trojka” a Soci. E ha ribadito la sua posizione sulla mossa di Trump in Israele: una decisione che «non aiuta la risoluzione del conflitto, semmai destabilizza i complessi equilibri». Lo status di Gerusalemme, ha detto, può essere concordato solo «grazie a colloqui diretti tra palestinesi e israeliani» in linea con le risoluzioni Onu. Ancora una volta Putin fa leva sugli errori di Washington per ergersi come unico mediatore credibile. A differenza degli Stati Uniti, come ricordano spesso gli analisti moscoviti, la Russia non ha due Oceani a separarla dal resto del mondo.
L’instabilità in Medio Oriente vuol dire instabilità ai suoi confini. È il vicino di tutti. E sfrutta questo vicinato per dialogare con interlocutori diversi tra loro come la roccaforte sunnita saudita e l’Iran sciita, il Qatar e i Paesi del Golfo. L’obiettivo è realizzare il sogno che insegue dai tempi di Pietro il Grande: insediarsi nel Mediterraneo. Mentre Putin era impegnato nel suo tour, il ministro degli Esteri di Tripoli Mohamed Taher Siala arrivava a Mosca. Messa in sicurezza la Siria, riallacciati i rapporti con Turchia ed Egitto, la Russia guarda sempre più alla Libia.