Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2017
Non solo Brexit. Il problema europeo sono Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca
Il faro dei media internazionali è puntato sui negoziati di Brexit, ma potenzialmente c’è un problema ancora più grande nell’Est Europa, un cocktail esplosivo formato da nazional-populismi in Ungheria, Polonia e Repubblica ceca che mettono a rischio la coesione dell’Unione. Sale dunque la febbre nazionalistica e la prospettiva di un’altra rottura sul fronte orientale sembra essere in aumento.
L’ultimo colpo di piccone è arrivato da quando il Parlamento polacco, con la maggioranza del partito di destra Diritto e Giustizia (Pis) del leader Jaroslaw Kaczynski, ha votato due norme che sottopongono la Corte suprema e il Consiglio nazionale di magistratura al potere esecutivo, cioè al ministro della Giustizia nominato dal partito di governo nonché al presidente della Repubblica, anche lui legato al partito di Kaczynski. Contro le controverse nuove leggi si sono svolte ampie manifestazioni sotto la sede del Sejm, il Parlamento polacco, e nei prossimi giorni sono annunciate anche altre proteste in diverse città del Paese dove vivono 38 milioni di abitanti al 90% di religione romano-cattolica.
La Polonia rischia di aver varcato il Rubicone verso l’apertura della procedura per violazione dello Stato di diritto che, in base all’articolo 7 del Trattato di Lisbona, potrebbe portare a sanzioni. Dopo l’approvazione da parte del parlamento di Varsavia della riforma del sistema giudiziario contestata dalla Ue, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker è intervenuto per «inserire il tema nell’ordine del giorno della riunione del Collegio dei Commissari della prossima settimana». Anche Budapest e il suo leader populista Viktor Orban non cessa di sfidare la Ue sui diritti umani, libertà dei media e l’accoglienza ai rifugiati. Non a caso Ungheria, Repubblica ceca e Polonia sono state deferite alla Corte di Giustizia Ue per non aver ricollocato i richiedenti asilo da Italia e Grecia.
Come pure in Repubblica ceca dove il neo premier Andrej Babis ha detto che il suo Paese cercherà di sopperire le sue inadempienze in merito all’accoglienza dei migranti tramite l’erogazione di sovvenzioni finanziarie alla Ue.
Anche in Romania le cose non vanno come dovrebbero: oltre ventimila persone sono scese in strada domenica sera sotto il gelo a Bucarest per manifestare ancora una volta la propria insoddisfazione nei confronti del governo del premier socialdemocratico Mihai Tudose in particolar modo per quanto riguarda la riforma poi approvata in fatto di riduzione dell’indipendenza della magistratura, che vanificherebbe l’efficacia della lotta alla corruzione dilagante.
Ma torniamo a Varsavia, un tempo allievo modello dell’allargamento a Est dell’Ue che gli concede fondi per 229 miliardi di euro fino al 2020, dove il leader di fatto della Polonia, Jaroslaw Kaczynski, ha scelto il suo secondo primo ministro in due anni, optando la settimana scorsa per il ministro delle Finanze Mateusz Morawiecki, con un curriculum di studi ottenuto in Occidente. Morawiecki, già ministro delle Finanze e veterano degli incontri internazionali a New York e Londra, è stato scelto per rassicurare gli investitori che la politica anti-europea del Governo polacco non metterà in pericolo i loro investimenti sul un’economia da 470 miliardi di dollari.
Ma l’atmosfera a Bruxelles è che le istituzioni europee non possono più stare a guardare un Paese che è il più grande beneficiario netto di aiuti europei senza pagare un prezzo.
«A Bruxelles cresce la convinzione che la solidarietà non può essere una strada a senso unico, e che diventa difficile giustificare i trasferimenti netti di 10 miliardi di euro all’anno per un paese che è sempre più in disaccordo con i valori del blocco», ha detto Bruno Dethomas, consulente politico presso GPLUS consultancy a Bruxelles ed ex ambasciatore dell’Ue in Polonia. «È giunto il momento che l’Ue reagisca, o rischia di perdere la sua anima».