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 2017  dicembre 09 Sabato calendario

L’uomo che volle morire in santa pace

Il mese scorso al Jackson Memorial Hospital di Miami, in Florida, è arrivato in un’ambulanza a sirene spiegate ed in codice rosso un uomo di 69anni trovato riverso per strada privo di sensi, senza nessun documento o accompagnatore al seguito, e che, vista l’emergenza, ha avuto naturalmente la precedenza assoluta su tutti gli altri pazienti nell’accesso immediato al pronto soccorso. I medici presenti quella sera si resero subito conto che quell’uomo era in stato di coma, ed i primi tentativi di risveglio adottati non ebbero alcun successo. Quel paziente inoltre, non aveva con sé nessun segno identificativo che potesse far risalire alla sua famiglia, però ne possedeva uno molto particolare, perché quando è stato spogliato per cercare una vena del collo dove montare una flebo, i medici scoprirono che aveva impresso un tatuaggio proprio a livello del giugulo, con una scritta che recitava: «do not resuscitate», ovvero non rianimare, marcato in inchiostro nero, a lettere maiuscole, con il “not” sottolineato e con accanto la sua firma, sempre tatuata sulla pelle. Nel frattempo, dalle analisi del sangue eseguite d’urgenza, dalle radiografie e dall’elettrocardiogramma, fu accertato che l’uomo aveva problemi cronici al cuore ed ai polmoni, che era affetto da diabete scompensato, ma che sarebbe stato possibile rianimarlo, ristabilirlo, ricompensarlo e il tentativo di salvargli la vita sarebbe stato effettivamente reale. 
I sanitari quindi all’inizio, pur nello smarrimento della lettura di quel tatuaggio, decisero di non onorarlo, ritenendo presumibilmente il suo messaggio il frutto di un impulso e non di una decisione meditata, ed invocando il principio morale ippocratico di non potersi permettere di prendere una decisione irreversibile senza certezze, procedettero quindi all’assistenza medica e strumentale di quel paziente in coma, finalizzata alla sua rianimazione. In quei minuti frenetici però, gli stessi medici, mentre operavano e discutevano tormentati dal dubbio attorno a quel malato, chiesero un consulto urgente con il bioeticista dell’Università Kenneth Goodman di Miami, il quale, una volta arrivato, espresse chiaramente il suo parere, vergandolo e firmandolo sulla cartella clinica, che si rivelò opposto a quello intrapreso dai sanitari, sostenendo che quel tatuaggio esprimeva con evidente certezza una preferenza autentica, rafforzata anche dal nome e cognome allegato alla scritta, come fosse una firma in calce fatta di fronte ad un pubblico ufficiale. A quel punto i medici hanno dovuto interrompere le procedure invasive avviate e furono costretti a rispettare le volontà scritte sulla pelle di quel paziente sconosciuto, che addirittura le aveva tatuate in bella vista sul proprio collo, nel bel mezzo delle due arterie carotidee, e sopra la laringe che in casi come questi viene subito intubata, e, supportati dal bioeticista intervenuto, sospesero immediatamente ogni accanimento terapeutico, staccando il respiratore automatico, l’ossigeno e le flebo con i potenti farmaci. Dopo questo consulto, e dopo l’interruzione delle terapie, grazie al nome inciso sul collo, furono rintracciati i parenti dell’uomo, i quali, una volta accorsi in ospedale, mostrarono ai sanitari una dichiarazione scritta e firmata sul fine vita del loro congiunto, nella quale lo stesso esprimeva il desiderio di non essere in nessun modo resuscitato, nel caso in cui si fosse trovato in uno stato di incoscienza, di coma, e senza capacità di intendere e di volere. Poco dopo le condizioni del paziente, senza più alcun supporto farmacologico, e strumentale, sono quindi peggiorate, e a distanza di qualche ora, durante la notte, è intervenuto il suo decesso.
Oggi racconto questa storia, che è stata descritta e pubblicata sul New England Journal of Medicine la scorsa settimana, in un articolo con allegata la foto del tatuaggio espressivo della volontà del paziente, perché essa richiama chiaramente le Dat di cui si parla in questi giorni a proposito del disegno di legge sul testamento biologico, e questa vicenda, pur nella sua sconcertante drammaticità, andrebbe raccontata nell’Aula del nostro Parlamento che si prepara a votare la legge sul fine vita, come esempio di una vera e propria dichiarazione anticipata di trattamento di un anonimo paziente, del quale non è stato reso noto il nome per ragioni di privacy, ma che riflette la stessa dichiarazione che migliaia di italiani aspirano a sottoscrivere da anni, e che speriamo non saranno costretti anche loro a tatuarsi sulla pelle per chiarire in modo indelebile la loro volontà, per evitare cioè di subire atti contrari alle proprie convinzioni negli ultimi giorni o nelle ultime ore della loro esistenza.