la Repubblica, 10 dicembre 2017
Intervista a Vinicio Capossela
Colleziona cappelli e parole Vinicio Capossela, cantante, scrittore, uomo di tormentate melodie: storie rauche e perfino mostruose, nelle quali si producono effetti a volte stridenti. Vive, quando non è in tour (e ora lo è con lo spettacolo Ombre nell’inverno nei teatri italiani fino alla fine dell’anno), non distante dalla stazione centrale di Milano: uno studio di registrazione con annessa cucina e, poco distante, la casa. «In un venerdì 17, di alcuni anni fa, scendendo da un taxi fui lievemente investito da un’altra macchina, rompendomi la caviglia. Zoppicai, per pochi metri, fino all’altezza di un portone. Il cartello in alto portava scritto “Affittasi” e fu così che finii a vivere qui, nella mescolanza di etnie e di storie, con accanto quel monumento egizio che è la stazione». Capossela ha barba lunga da viandante e occhi bizantini. Sembra un uomo del sottosuolo, privato ( o forse salvato) delle ossessioni teologiche. Ma pur sempre legato alle profondità della terra o, molto più banalmente, agli scantinati della vita.
Credi nella coincidenze?
«C’è sempre qualcosa di misterioso in esse. Il caso e l’arbitrarietà dell’interpretazione rendono la coincidenza un valore assoluto. Infondabile e inspiegabile. Un atto di fede».
È questa la tua fede?
«La mia fede è non avere fede».
Vinicio che nome è?
«Mio padre mi chiamò Vinicio forse perché si era appassionato a un personaggio di Quo Vadis ma anche per via di un fisarmonicista. Amava il peplum, la musica e Celentano. Dipendiamo da nomi di cui non siamo responsabili».
E Capossela?
«Ha origini meridionali, in quei mondi fissati da Ernesto De Martino, tra la Lucania e l’Irpinia».
Sono lì le tue radici?
«I miei vengono da lì. Poi emigrarono in Germania. Sono nato casualmente a Hannover. Ma ho passato l’infanzia e la giovinezza in Emilia. Terra unica: di canzoni, balli e motociclette».
Cosa ha significato crescere in quei luoghi?
«Vivevamo in una contrada di campagna. Dove ancora era presente il ricordo dei tedeschi invasori. C’era la casa del popolo. La balera, le feste comandate. C’erano ancora le piccole e autentiche comunità, con un senso di profonda appartenenza. Il sacro e il profano convivevano e la musica faceva da collante».
Quando hai iniziato a interessartene?
«Mi ha sempre attratto, fin da bambino. Ricordo la prima volta che assistetti alla festa per uno sposalizio. Ero sedotto dalla gioia della gente che ballava; dal canto di alcuni e da un suonatore di fisarmonica, particolarmente bravo. Avevo otto anni. La nipote del prete mi fornì i primi rudimenti musicali. Poi andai a lezione da un maestro di musica da ballo e imparai solfeggio».
E a quel punto?
«Apparentemente nulla era mutato. Sentivo, però, che la musica avrebbe cambiato la mia vita. Non sapevo se l’avrebbe abbellita o peggiorata. Era una scommessa troppo grande per un cuore di bambino».
Sei cresciuto con quell’azzardo, rischiando cosa?
«Ogni volta che pronuncio la parola “artista” sento sfiorarmi dall’ala del fallimento».
C’è differenza tra fallimento e autodistruzione?
«L’autodistruzione aspira al grande fallimento. Ma più spesso si vive di piccoli deliri e di enormi equivoci».
Come giudichi la tua vita?
«Da quale punto di vista?».
Metti che in questo momento qui sul tavolo ci siano una bottiglia, un libro e l’idea di una canzone con quale ordine li sceglieresti?
«A volte ho bevuto, a volte ho letto, a volte ho scritto e composto. Non c’è mai stato un ordine o una priorità definitiva. L’importante è non ripetersi e non dipendere troppo dalle proprie scelte».
Sei compulsivo quando lavori?
«Sono frammentario, in certi casi ossessivo. Senza giungere quasi mai a una vera conclusione».
Beh, porti a termine le tue storie, le tue canzoni, i tuoi concerti.
«Parlo di una conclusione interiore, di una voce sospesa che mi consente tuttavia di mettere in relazione mondi differenti».
Quali?
«Il linguaggio di una canzone con il linguaggio di un romanzo».
Fai un esempio?
«C’è un bellissimo verso di Saffo: “Tramontata è la luna/ e le Pleiadi a mezzo della notte/ anche giovinezza già dilegua/ e or nel mio letto resto sola”, sembra quasi presentire L’infinito di Leopardi. Allora ho scritto una canzone che si chiama Le pleiadi sugli inganni dell’attesa».
Cosa volevi dire?
«Affezionarsi alla distanza e temere che venga colmata. Quel verso mi dava l’idea di una vastità in cui ci si può perdere e al tempo stesso mi faceva pensare alla differenza di significato tra frontiera e confine. La frontiera è qualcosa che non conosci, è un’idea di distanza che puoi colmare o non colmare. Mentre il confine nasce da una vicinanza, da un ordine stabilito. Da un’identità. I romani identificavano il confine con una divinità che era alla base dell’ordine».
Forse anche dell’esclusione.
«Certo, come sembra farci rivivere l’odierna Europa. Così attaccata all’infelicità dei nostri egoismi. Ho provato a raccontarlo con Tefteri».
Cosa significa “Tefteri”?
«Era il libretto dei conti che ogni commerciante – da Salonicco ad Atene – teneva nella sua bottega greca. Volevo vedere quali conti in sospeso ci fossero tra l’Europa e la Grecia. Sono stati anni terribili per quel popolo. Ma lo abbiamo dimenticato».
Tu invece cosa ricordi?
«Un paese straordinario di poco più di undici milioni di abitanti contro quasi mezzo miliardo di persone che vivono nel resto dell’Europa. Da quale parte stava la forza? E poi ricordo la loro musica, cosa è stata e come ha intriso le radici di un intero popolo. Penso al loro rebetiko, un ritmo nato negli anni Venti dello scorso secolo. Per i greci è stato come il tango per gli argentini».
Che musica è?
«È musica che resta e che si suona da quasi un secolo, all’incrocio tra Oriente e Occidente. Si suonava soprattutto nelle taverne dei porti; il buzuki, uno strumento a tre o quattro corde, è la sua anima. Una volta chiesi a un tale cosa volesse dire rebetis e lui mi ha risposto: non capisco, io sono rebetis. Era un marinaio con le basette che gli partivano dagli occhi e scendevano, come due curve, sui lati del volto. Rebetis fu un modo di stare al mondo, di pensare il mondo. È una musica che non invita a essere migliori, ma solo a essere se stessi».
C’è qualche altro genere o artista cui si attaglia la tua sensibilità?
«A me piacevano Neil Young e Bruce Springsteen, ma soprattutto Tom Waits. Avevo tredici anni quando ascoltai per la prima volta l’album Foreign Affairs e capii l’importanza del solista che sostituisce la chitarra con il pianoforte. Se si guarda al lavoro di Waits si vede che non costruisce archetipi – come fa per esempio Dylan – non esprime una vera originalità; ma ha la forza di rielaborare tutta la musica popolare americana, marcandola con dei forti echi letterari».
Quali?
«Ci ritrovavo Kerouac e Bukowski che proprio alla fine degli anni Settanta avevo cominciato a leggere. Capivo la loro paura di vivere, mascherata di gioia lungo strade che non portavano più a niente. E mi viene in mente uno come Micah P. Hinson, forse l’unico contemporaneo la cui musica sento affine. Afflitto dalla stessa paura di vivere che attanagliò Jeff Buckley. Scomparso in un giorno di fine maggio nelle acque del Tennessee, giusto vent’anni fa. Non era epica la sua? Realizzò un solo disco, Grace, ed entrò nella storia».
Come cantava Guccini: gli eroi sono tutti giovani e belli. È vero che fu lui a scoprirti?
«È vero, dopo avermi ascoltato mi segnalò al suo produttore, una persona che fu fondamentale nella mia vita. Si chiamava Maurizio Fantini e aveva un modo tutto suo di vedere le cose. Poteva essere mio padre. Amava le voci anomale e i personaggi sghembi. Fu grazie a lui che ebbi a disposizione i primi grandi professionisti. Gente che suonava con Paolo Conte, come Massimo Pitzianti. Gente che sapeva passare il mestiere al più giovane, invece di tenerlo gelosamente segreto».
Di Paolo Conte cosa pensi?
«È l’unico che si comporta e vive come un’involontaria leggenda. Ma lo è e non deve fingere di esserlo. Ha assorbito e rigenerato un mondo che ha fatto proprio con un linguaggio personalissimo. Di Conte amo il gusto per gli accessori: foulard, ombrelli, Topolino amaranto, perfino le sue parole a volte sono accessorie, anacronistiche e per questo capaci di arrivare al bersaglio da una grande distanza».
Più volte sei tornato su questo tema della distanza. Cosa ti affascina?
«Mi dà la sensazione che le cose per essere vere devono partire da lontano. C’è stato un periodo della mia vita in cui ascoltavo quasi esclusivamente Glenn Gould. Ero stregato dai suoi eterni cappotti portati anche d’estate, dai guanti che indossava perfino quando suonava, dalla perfezione cercata nelle notti insonni, nell’isolamento vissuto come scelta. E pensavo che se vuoi comunicare la perfezione devi stare alla larga da un sacco di cose. Devi essere distante da tutto. Fu per me un periodo strano».
Cioè?
«Non avevo fissa dimora, vivevo soltanto in hotel, preferibilmente vicino a qualche tangenziale. Passavo le notti calde e umide d’estate a Milano camminando lungo l’asfalto, ascoltando il raro sferragliare dei tram, con i pakistani alle fermate che aspettavano di essere riportati a casa insieme ai loro mazzi di rose invendute. E poi la stanza d’albergo: la moquette in terra, un letto, uno specchio, il televisore, il bagno dall’incerta pulizia. È in questo contesto che ho a lungo ascoltato Gould percependone rigore e chiarezza».
Perché vivere in albergo?
«Perché era il massimo della spersonalizzazione. Riempire uno spazio chiuso come fossi un gas invisibile che si espande».
È curiosa questa immagine.
«Ho studiato chimica, sono perito chimico. Anche Borodin, oltre a essere compositore, fu professore di chimica. Morì a un ballo durante il carnevale russo. Morì come investito da un gas esilarante, contagiando di meraviglia coloro che erano presenti».
Hai un modo molto dissipativo di raccontare la vita.
«Ho sempre cercato di ottenere il massimo risultato con il massimo sforzo. Forse è per questo che mi piace il sollevamento pesi. Quei macisti che allargano le vene del collo come fossero autostrade, che traballano e scorreggiano mentre le mani strangolano il bilanciere, nello sforzo supremo di alzare più di duecento chili, mi danno per un attimo l’idea che possa tornare bambino, al tempo del mito: che è il tempo che prediligo».
Su cosa stai lavorando?
«Il prossimo disco parlerà di bestiari medievali. Penso che lo spazio dell’animale sia scomparso dal nostro immaginario. È ridotto a cibo, addomesticato, tenuto sotto le cure della pubblicità. Per me invece è una figura totemica. Un modo per ridare senso al nostro mondo. Quando ancora le Colonne d’Ercole avevano un senso».
Divisi tra ciò che conosciamo e ciò che temiamo?
«Tra il noto e l’ignoto. Ho spesso pensato che in ogni esule, in ogni vagabondo ci fosse il desiderio di spostare le colonne un po’ più in là. Sono quelli i momenti in cui ci affacciamo all’ignoto e al tempo dell’immortalità, ma poi come la gallina di Céline riprecipitiamo nello sterco».
Sono i rischi insiti in ogni epica.
«Che val la pena correre. Perché è epico tutto quel che viene sottratto alla disattenzione, alla banalità, alla frustrazione. E non devi essere necessariamente un eroe per provare a vivere tutto questo».
Ti viene in mente qualcuno?
«Ti dirò in conclusione chi è stato Tony Castellano, un pianista americano di origini italiane. Lo incontrai a Bologna in quella fase in cui il jazz da noi era interpretato da Chet Baker che sentivi arrivare dal rumore dei suoi stivali texani e soltanto dopo ti raggiungeva il suono della sua tromba. Erano due naufraghi molto speciali: Tony e Chet. Hanno fatto parte del mio repertorio esistenziale. Gente che dovremmo ringraziare per il solo fatto che le loro mani hanno sfiorato uno strumento. E non so se è meglio essere sepolti da una palata di leggenda o finire in un cimitero anonimo. Ma quello che so è che loro non tentarono mai di fare bella figura. Non era il pubblico che gli interessava, ma solo seguire il ritmo della loro anima».