la Repubblica, 10 dicembre 2017
Parole d’amore per corrispondenza
Sobrio e iconograficamente armonioso, il volumetto Buste di poesia giunge a proporre per la prima volta in Italia, grazie alla cura e alla traduzione di Nadia Fusini, gli Envelope Poems firmati dalla poetessa ottocentesca Emily Dickinson. Sfilano lungo le pagine le riproduzioni delle buste epistolari conservate a suo tempo dalla magnifica autrice americana per riempirle di piccoli poemi, e le immagini sono accompagnate da didascalie che chiariscono i versi di cui sono messaggere. Come ideali tele pittoriche, le superfici cartacee sminuzzate o sghembe recano frasi composte secondo ritmi visivi strutturati con estro e coerenza nel pallido disegno delle tracce e nella regolarità calligrafica. Dal loro flusso scaturisce un’opera sorprendentemente in grado di anticipare le ricerche verbo-visuali del Novecento e fenomeni ibridi di arte e letteratura quali i Calligrammes di Guillaume Apollinaire e il Coup de dés di Stéphane Mallarmé.
Paragonato alla musica della natura, il discorso umano è ridondante, suggerisce Dickinson nelle trame ottiche dei versi che solcano queste buste fatte a pezzi: “Una sola nota / di un solo uccello / è meglio di / milioni di parole”.
A volte la sua voce diviene implicitamente politica, riassumendo in lampi di poesia un significato etico e sociale ( molto pessimista) dell’agire collettivo: “Gli uomini per l’Onore / lavorano sodo / Non si sa però se / se lo guadagnano / pagati come sono / dopo che hanno smesso / con l’infamia e con l’urna”. A volte Emily, nei confini spigolosi delle buste, colloca un paradosso psicologico: “C’è chi è superficiale / superficialmente / e profondo solo / per caso”. La metafisica dell’essere, nella sua prospettiva, può esporsi in una sintesi esemplare: “In questa breve vita / che dura solo / meramente / un’ora / quanto – quanto poco – è / in nostro potere”. L’intimo silenzio dell’altro, ci confida sopra un aguzzo lembo di carta, è un segreto da salvaguardare perché si specchia in noi, e in questa sfera già potremmo percepire l’inconscio: “Visto che ci sono stanze della nostra mente / in cui – nelle quali / non entriamo mai / senza scusarci / dobbiamo rispettare / i sigilli altrui”.
Sfiorando zone di trascendenza, Emily guarda lontano, ma senza rinunciare alla concretezza di un’osservazione declinata al presente. Durante una vita discreta e appartata, esplora l’universalità nelle minuzie del quotidiano, annullando sempre il proprio ego. Segue con eroica ostinazione una strategia di fuga dal consenso dei lettori: scrive migliaia di poesie ma non vuole pubblicarle, preferendo riunirle in fascicoli cuciti con il filo bianco. Nel suo percorso vibra una sostanza mistica, consegnataci fin dal titolo ( La santa Teresa di Amherst) dalla densa premessa di Fusini che introduce questa versione italiana degli Envelop Poems.
Un’ulteriore originalità Emily la dimostra adottando l’uso inverso della busta, che da elemento destinato a nascondere si trasforma in un oggetto aperto e sviscerato. Giocando col dentro e il fuori del contenitore, Dickinson realizza un atto da “chiaroveggente ambientalista”: una virtuosa parsimonia, “very New England”, la induce a riciclare. Ma al di là di quest’aspetto ce n’è un altro, più profondo: attraverso la manipolazione delle custodie, la parola stessa in lei diventa busta. Emily scrive “non per svelare”, spiega Fusini, bensì per introdurci nell’ombra più recondita delle parole. Nel loro senso ultimo e nel loro nucleo esistenziale. Creato per occultare, l’involucro ribalta la funzione che gli compete esibendo “un teatro in cui Emily canta senza sonoro”. E pur non rivolgendosi a un Dio in particolare, quel canto silenzioso “ha l’intensità di una preghiera”. La misura semplice e assoluta di tali orazioni può illuminare il mondo.