la Repubblica, 11 dicembre 2017
Stile Macron e nervi tesi
Il riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale di Israele sta creando un’unità dei paesi musulmani fino a pochi giorni fa divisi da un conflitto che rischiava di diventare armato. I due principali schieramenti a confronto, di cui l’Arabia Saudita, potenza sunnita, e l’Iran, potenza sciita, sono la massima espressione, in queste ore con variabile enfasi condannano unanimi la decisione di Donald Trump. Il presidente americano ha fatto un’importante concessione al governo di Benjamin Netanyahu, ma al tempo stesso ha messo in crisi, almeno per il momento, l’alleanza di fatto di Israele con l’Arabia Saudita, nel conflitto con l’Iran. E ha compromesso la posizione degli Stati Uniti come superpotenza mediatrice.Non deve essere stato facile per Riad pronunciarsi, sia pure con misura, contro gli Stati Uniti e Israele. I primi alleati tradizionali ed anche clienti e protettori nella storia della dinastia saudita. La casa reale non può non assecondare gli wahabiti, i religiosi integralisti sostenitori della monarchia, in queste ore impegnati a condannare la decisione di Trump. Protettrice dei principali luoghi santi dell’Islam l’Arabia Saudita non può restare indifferente a quello che è visto come lo “scippo” di Gerusalemme, da dove il profeta si è involato su un cavallo bianco. Né è stato facile per l’Egitto e la Giordania, paesi con stretti rapporti, inclusi quelli diplomatici, con lo Stato ebraico, associarsi al resto del mondo arabo per condannare Trump. Se l’Egitto ha da tempo Israele come interlocutore privilegiato, la Giordania è la custode della Spianata delle moschee, dove c’è quella di al- Aqsa, una delle più sante per l’Islam. Con quella che viene definita una provocazione “inutile” il presidente degli Stati Uniti ha riacceso anche la solidarietà degli arabi nei confronti dei palestinesi. Solidarietà che sembrava essersi se non spenta perlomeno affievolita. Non è agevole in queste ore di forti umori popolari e di studiate dichiarazioni dei responsabili politici prevedere quanto durerà la collera.Gli effetti della decisione si estendono agli europei. Ieri Emmanuel Macron ha espresso con chiarezza il loro disaccordo con Donald Trump. Essendo il più stabile dei leader dell’Unione europea ( Angela Merkel è impigliata nella ardua impresa di creare un governo) il presidente francese ha manifestato di nuovo la sua opposizione all’iniziativa americana. La visita a Parigi di Benjamin Netanyahu gli ha offerto l’occasione. L’incontro tra il presidente francese e il primo ministro israeliano è cominciato con un abbraccio e si è concluso con dichiarazioni polemiche. Entrambi hanno espresso il loro profondo dissenso. Dopo il cordiale abbraccio iniziale il pranzo nel palazzo dell’Eliseo, a giudicare dai successivi discorsi, deve essere servito anche a precisare le discordanti idee dei commensali. Il tutto in un clima di amichevole discordia, che il giovane Emmanuel Macron sa creare con gli interlocutori difficili, dimostrando l’abilità di uno sperimentato diplomatico.Il francese intrattiene un puntuale dialogo con Donald Trump del quale deplora apertamente molte iniziative. Compresa quella di Gerusalemme. Con l’ospite israeliano non ha risparmiato gli inviti a non moltiplicare gli insediamenti nei territori palestinesi occupati. Ha chiesto a Netanyahu di compiere “gesti coraggiosi” per uscire dall’attuale blocco dei negoziati con l’Olp. Ha anche ribadito la necessità di arrivare alla creazione di due Stati, attraverso trattative alle quali è affidato il destino di Gerusalemme, secondo le varie dichiarazioni dell’Onu. Emmanuel Macron ha condannato anche gli attacchi terroristici subiti dallo Stato ebraico e ha così equilibrato le sue critiche. Netanyahu ha replicato che Gerusalemme è la capitale di Israele da più di tremila anni. In realtà il Parlamento israeliano l’ha dichiarata tale nel 1980, trentadue anni dopo l’indipendenza. Ma le ambasciate, salvo qualche rarissima eccezione, sono rimaste a Tel Aviv. Nel 1995 gli Stati Uniti hanno deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale e di conseguenza spostarvi la rappresentanza diplomatica. I vari presidenti hanno tuttavia rinviato di semestre in semestre l’applicazione di quella legge non volendo perdere il ruolo di potenza mediatrice tra israeliani e palestinesi. L’ appoggio ai primi è stato sempre evidente, ma tenendo l’ambasciata a Tel Aviv gli Stati Uniti lasciavano aperta la porta a negoziati. Con la sua decisione si è indotti a credere che Trump approvi il processo di annessione in corso da anni con il moltiplicarsi delle colonie israeliane in Cisgiordania. Il riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale appare una tappa decisiva. In realtà Trump è stato ambiguo. Ha lasciato aperto qualche spiraglio. Evitando di definire capitale “indivisibile” Gerusalemme, come fanno invece gli israeliani, non ha escluso in linea di principio che i palestinesi possano installarvi anche loro la capitale. Ma ha omesso di citarli.