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 2017  dicembre 10 Domenica calendario

In fondo al mare preziosi tesori. Ma estrarli è un rischio

Le ricerche condotte in mare negli ultimi 50 anni hanno rivelato un mondo sommerso molto più ricco di quanto fosse possibile immaginare, e non solo in termini di biodiversità, ma anche propriamente di minerali preziosi. Campioni di rocce e sedimenti recuperati dalle profondità marine sono risultati ricchi di oro, argento, cobalto, noduli di rame e ferromanganese, spesso sotto forma di associazioni solfuree o in forma di minerali nativi. Questi si trovano in grandi quantità nelle aree dove l’attività magmatica è intensa, quali gli archi vulcanici, come le isole Eolie; le grandi faglie trasformi medio-oceaniche, come le Mauritius; e più in generale le zone vulcaniche sottomarine. Ma come si formano questi minerali? I fluidi magmatici, provenienti dalle profondità e rilasciati in mare attraverso i black smokers (camini mineralizzati), si mischiano con l’acqua di mare e, a causa della elevata temperatura (350-600 gradi), si innescano reazioni chimiche che portano alla precipitazione dei metalli in essa presenti. Questi metalli si depositano sul fondale, formando spesse croste solfuree arricchite in minerali preziosi (solfuri polimetallici). Una quantificazione di questi depositi è piuttosto difficile: i dati scientifici sono puntuali e spesso riferiti ad aree piuttosto ristrette; mentre i dati raccolti dalle compagnie minerarie private sono parziali o non accessibili. Tenendo conto di questi limiti, si stima che la sola zona di frattura Clarion-Clipperton (nell’Oceano Pacifico) ospiti 63.000 mton (milioni di tonnellate) di noduli di ferromanganese, che possono produrre circa 17.500 mton di manganese, 761 mton di nichel, 669 mton di rame e 134 mton di cobalto, stime fatte dall’International Seabed Authority (Isa, Autorità internazionale per i fondali marini), nata per regolamentare e monitorare studi di fattibilità di esplorazione ed estrazione di risorse in acque internazionali. Sulla base delle attuali quotazioni da una tonnellata di noduli si possono recuperare fino a mille dollari statunitensi. 
Nonostante la presenza dei metalli preziosi sui fondali marini fosse nota da tempo, è solo negli ultimi decenni che governi e imprese di estrazione hanno posto l’attenzione su di essi. Questo perché molti minerali presenti nei depositi sulfurei, come oro e argento, sono impiegati nella produzione di computer, cellulari e in generale nell’alta tecnologia. L’aumento della richiesta di questi minerali e la riduzione delle risorse a terra hanno spinto diversi Paesi come Cina, Corea, Germania e India a finanziare lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia per l’esplorazione e lo sfruttamento 
dei fondali marini. Di fatto risale al 2002 la prima concessione data dall’Isa (www.isa.org.jm/) per l’esplorazione e sfruttamento di alcune aree ricche di noduli e solfuri polimetallici, e croste di ferromanganese. Allo scadere della concessione, che può avere durata massima di 15 anni, il governo di Papua Nuova Guinea ha consentito alla società canadese Nautilus Inc., lo sfruttamento del sito Solwara 1 (Mar di Bismarck, Pacifico sud-occidentale). E altre ipotesi del genere sono in discussione. 
Ovviamente estrarre minerali in un ambiente sottomarino a profondità superiore ai 1.000 -2.000 metri, dove le pressioni sono 100-200 volte quella atmosferica, nel buio assoluto, risulta assai difficoltoso. Ciò nonostante la Nautilus sta sviluppando enormi Rov (Remotly Operated Vehicle, sottomarini a comando remoto), pilotati da bordo di navi operative, che dovrebbero scavare sul fondale e tramite tubi pompare i sedimenti sulla nave. Qui i depositi contenenti minerali preziosi verrebbero separati dal resto dei sedimenti, i quali attraverso dei tubi tipo gasdotti verrebbero nuovamente pompati sui fondali marini. Invece i depositi solfurei sarebbero lavorati a terra per estrarre i minerali. 
L’apparente semplicità della procedura di estrazione contrasta con la scarsa conoscenza dei fondali marini, i quali spesso si presentano molto più impervi del previsto. Inoltre, queste aree non sono deserte, ma spesso popolate da organismi bentonici (enormi vermi tubolari, bivalvi, gasteropodi e la loro fauna associata) e micro-organismi detti chemiotrofi, i quali sono in grado di trarre energia, invece che dal sole, ossidando le sostanze inorganiche (idrogeno, zolfo, o ferro bivalente) presenti nei solfuri. Questi organismi sono importanti perché sono alla base della catena alimentare. L’estrazione di questi solfuri porterebbe alla distruzione degli ecosistemi presenti e all’inquinamento delle aree prossime al fondale a causa della torbidità creata dall’attività di estrazione e di scarico. Tali prospettive hanno suscitato le proteste degli ambientalisti (MiningWatch, Greenpeace, Ban Seabed Mining Alliance), specie contro il progetto Solwara che si prevede distruggerà numerose specie nell’area di estrazione. Le ripetute proteste della popolazione stanno frenando gli entusiasmi degli investitori internazionali e aumentando le perplessità dell’Isa nei confronti dei progetti di estrazione. Infatti a distanza di sei anni dall’inizio del progetto Solwara, la Nautilus non ha ancora finalizzato la messa a punto del sistema di estrazione, che pare rimanere un’ipotesi astratta.