Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2017
Una trappola da 31 miliardi grava sui conti del futuro
Un macigno da oltre 70 miliardi che dal 2011 pesa sui nostri conti pubblici, con il suo ingombrante fardello di aumenti automatici dell’Iva e delle accise sui carburanti. Stiamo parlando delle ormai tristemente famose «clausole di salvaguardia», introdotte a tutela degli equilibri di finanza pubblica. In sostanza, per blindare i saldi, rassicurare la Commissione europea e i mercati, i governi succedutisi in questi anni hanno dovuto fare i conti con questa sorta di garanzia obbligata di ultima istanza. Il che vuol dire che qualora i tagli di spesa o gli aumenti di entrate indicati nelle manovre di finanza pubblica non avessero raggiunto (o non raggiungeranno) gli obiettivi prefissati, ecco pronto il piano B: l’incremento automatico appunto di Iva e accise.
La buona notizia è che nell’ultimo triennio la bomba a orologeria è stata parzialmente disinnescata. La cattiva notizia è che l’effetto delle vecchie clausole non si è ancora esaurito. La spada di Damocle che pende su tutti noi continuerà a dispiegare i suoi effetti fino al 2020. Nel 2011 fu il governo Berlusconi a seguire questa strada, travolto dalla crisi dello spread e dalla sfiducia che si era ingenerata nei confronti del nostro Paese. Poi toccò ai successivi governi Monti e Letta, con le devastanti code con cui si sono trovati a fare i conti prima il governo Renzi poi il governo Gentiloni.
La bomba a orologeria
Vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta, con riferimento al 2017-2020. Dalla lettura congiunta dei più recenti documenti programmatici e delle tabelle che corredano la legge di Bilancio ora all’esame della Camera in seconda lettura, apprendiamo che con la manovra correttiva dello scorso maggio chiesta da Bruxelles, pari a circa 3,4 miliardi, il Governo ha deciso di convogliare parte degli effetti strutturali delle misure in essa contenute alla parziale riduzione delle clausole.
Si tratta di 3,8 miliardi di tasse in meno (rispetto a quanto previsto in partenza) per il 2018, 4,4 miliardi nel 2019 e 4,1 miliardi nel 2020. Quante clausole restano in piedi? Presto detto: per il 2018, i residui 15,7 miliardi sono stati annullati dal Governo e sostituiti con il ricorso all’aumento del deficit (che passa dall’iniziale 1% all’1,6% del Pil).
Il problema si riproporrà nel 2019 per 12,4 miliardi e nel 2020 per 19,2 miliardi. In poche parole, qualora il governo che si insedierà dopo le prossime elezioni non individuerà altre risorse, dal 1° gennaio 2019 l’aliquota ridotta dell’Iva del 10% passerà all’11,5% e nel 2020 aumenterà di un altro punto e mezzo. L’aliquota ordinaria salirà dal 22 al 24,2% nel 2019 e al 25% nel 2021. A completare il quadro, arriveranno aumenti delle accise per 350 milioni dal 2019.
Una raffica di aumenti delle imposte indirette, dunque. Se non si riuscirà ad evitarli, occorrerà calcolarne gli effetti recessivi, e non è proprio una bella prospettiva per un’economia in lenta e faticosa ripresa, che ha lasciato sul campo negli anni della crisi quasi 10 punti di Pil.
In che modo le clausole hanno condizionato le recenti manovre? Prima ancora di metter mano alle misure di politica economica vere e proprie, Governo e Parlamento hanno dovuto assolvere al compito di evitare questa vera e propria raffica di aumenti delle tasse. Con il risultato che si sono ristretti i margini per azioni dirette al sostegno dello sviluppo e dell’occupazione. In diversi casi vi si è fatto fronte in prevalenza utilizzando l’arma del deficit.
La scorciatoia di aumentare il deficit
Nel 2015-2016, gran parte dei 19 miliardi di flessibilità concessi da Bruxelles sono stati convogliati proprio alla disattivazione parziale delle clausole. Ne troviamo riscontro appunto nell’aumento del deficit, che in ogni caso non ha mai superato il tetto massimo del 3% del Pil.
Nel 2017 si è percorsa la stessa strada, e per il 2018 ci si avvia a replicarla. L’alternativa sarebbe stata il taglio della spesa (per un importo pari al gettito atteso dall’aumento di Iva e accise inserito nei saldi di bilancio), oppure il ricorso ad altre entrate fiscali. Per il 2019 e 2020 al momento non vi è alcuna certezza. E tuttavia già nel Documento di economia e finanza (Def) di metà aprile occorrerà indicare come farvi fronte.
Chi se ne occuperà? Molto probabilmente l’attuale governo, in carica per gli affari correnti, poiché appare improbabile che per quella data il nuovo esecutivo si sia già insediato e abbia ottenuto la fiducia da Camera e Senato. Poi la soluzione vera e propria sarà adottata con la manovra di bilancio dell’ottobre 2018. Una volta superato il triennio 2018-2020 attraverso un percorso che si annuncia a dir poco complesso, il peso residuo delle vecchie clausole dovrebbe esaurirsi. A meno che non ne vengano introdotte altre, qualora l’incertezza politica renda necessario blindare in tal modo anche i conti pubblici degli anni a venire.
Per la verità, la riforma della legge di Bilancio varata nel 2016 promette di dichiarare chiusa la stagione delle clausole. Ma è più un “wishful thinking”, un pio desiderio, che una certezza assoluta.
Prima di una serie di due puntate La seconda sarà pubblicata lunedì 18 dicembre