il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2017
Franco Maria Ricci, ottant’anni inseguendo la bellezza. E i labirinti
A Franco Maria Ricci non è bastato essere uno dei più raffinati editori del pianeta, una specie di Aldo Manuzio cinque secoli dopo, capace addirittura di ristampare opere come il Manuale Tipografico di Giambattista Bodoni – l’uomo che segnò l’inizio della cultura grafica moderna, ispiratore anche di Steve Jobs e del quale Ricci possiede tutte o quasi le pubblicazioni – o l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
Non gli è bastato neanche fondare una rivista culturale che ha fatto la Storia e che si chiama FMR, le sue iniziali, dove non è mai stato pubblicato – sdegno estremo per l’immanenza – un artista vivente. Ed essere un collezionista tra i più sofisticati, capace di spaziare dal Rinascimento alla contemporaneità: no, neanche questo gli è bastato. Anni fa ha deciso, su antico suggerimento di Jorge Luis Borges – che oltre ad essergli amico gli curava una collana di libri, la mitica “Torre di Babele” – di voler costruire il labirinto più grande del mondo. E dopo tanti anni ci è riuscito, nel 2015 lo ha inaugurato dietro casa, nella campagna parmense: una grande stella piumata che si vede da un aereo di linea in quota, con i sentieri disegnati da canne di bambù e una piramide al centro – “sono l’unico architetto a cui è stato chiesto di progettare una piramide vera dai tempi degli Egizi” ricorda puntuale l’architetto Pier Carlo Bontempi. All’ingresso di questo nuovo Vittoriale c’è anche un museo, con tutta la sua collezione, che corre da Mazzola Bedoli a Bernini, da Canova a Ligabue – con spiccata predilezione per il Neoclassico – fino ad arrivare a quella Jaguar E-Type che ha accompagnato i suoi sogni di giovane dandy. Laissez-moi cultiver mon jardin, con questa frase di Voltaire, nel 2004, Franco Maria Ricci sembrava congedarsi dai suoi lettori, per dedicarsi all’opera della vita, il labirinto: “Io, come molti signori di una volta, mi dedicherò alla costruzione di un giardino. Ci saranno rovine e bambù, all’ombra dei quali nasceranno un grande labirinto, una biblioteca, un museo e tante altre cose superflue”. Detto, fatto. Però a metà, nel senso che – fortunatamente – non è riuscito a lasciare orfani i suoi lettori, troppo forte il richiamo della giungla. Quando Ricci dice “superfluo” non parla sul serio, perché da che mondo è mondo l’Etica trova il suo naturale pendant nell’Estetica, altrimenti adieu. Perché poi anche la fonetica, come la vita, potrebbe trarre in inganno: FMR pronunciato in francese suona éphémère, che vuol dire effimero. Ma qui di effimero non c’è niente, anzi, qui c’è l’eterno: libri stampati cinquecento anni fa, piramidi, dipinti immortali.
Qualche giorno fa, il 2 dicembre, Ricci ha compiuto i suoi primi ottant’anni e al Teatro Regio di Parma, tempio del melodramma, il gotha della cultura italiana lo ha festeggiato insieme alla moglie, Laura Casalis, compagna di vita e di progetti. Perché se il labirinto è quel luogo in cui si vaga a lungo senza sapere, tra i suoi imprevedibili snodi, dove si andrà a finire, éphémère la sua strada l’ha trovata da giovane. E aveva un orizzonte preciso, quello della bellezza. Magari nascosta tra le impertinenze di un ciuffo di bambù.