La Stampa, 10 dicembre 2017
Liberali in crisi. Mamma ho perso la classe media
Lo potremmo considerare come un atto d’amore, dolente e accorato. Il libro di Edward Luce Il tramonto del liberalismo occidentale (Einaudi, pp. 220, €17; con l’introduzione di Gianni Riotta) è una disamina lucidissima del terremoto che sta colpendo la categoria stessa di democrazia liberal-rappresentativa in questi anni di affermazione del sovranismo e del populismo. Sintomi, e non cause, come si premura di ricordare l’autore. Ed è anche una chirurgica messa a fuoco degli errori recenti della sinistra riformista, effettuata da un intellettuale britannico – editorialista del Financial Times, e già speechwriter nell’Amministrazione di Bill Clinton – sicuramente non imputabile di simpatie radical.
Il Western Liberalism di questo libro corrisponde all’insieme di valori che hanno innervato la democrazia liberale (e che si sono specialmente inverati nel liberalismo di stampo progressista, quello, appunto, della cultura liberal). Mentre la malattia contemporanea è quella della diffusione trasversale, per motivi differenti, della sfiducia nella liberaldemocrazia in settori variegati delle nostre società, dai millennials ad ambiti significativi delle stesse élites (soprattutto economiche), divenute sempre più «demofobe».
Esiste un nesso strettissimo – genetico – tra la liberaldemocrazia e il ceto medio, il cui ampliamento ha costituito la garanzia del consolidarsi dello Stato di diritto e una polizza-vita di pacificazione sociale. Ma il neoliberismo, sottolinea Luce, ha fatto saltare questo (delicato) equilibrio e, tradendo le promesse di allargamento delle middle classes, ha determinato una concentrazione esponenziale della ricchezza e dei benefici derivanti dallo sviluppo tecnologico in mani sempre più ristrette.
Lo mostrano le non-politiche urbanistiche, dominate dalla «gentrificazione» incessante, delle nazioni anglosassoni («negli Stati Uniti il tuo cap rappresenta sempre più spesso il tuo destino», come ha detto il teorico delle classi creative Richard Florida). E lo rende palese soprattutto il mercato del lavoro dove, a dispetto della retorica delle sorti magnifiche e progressive «sgocciolate» su tutti dall’economia high tech, sono saltati per aria gli ingranaggi dell’ingegneria della mobilità sociale.
La colpa, rimarca Luce, è anche della Terza Via che ha totalmente archiviato la sinistra sociale, sapendo però interpretare solamente un periodo di economia affluente ed espansiva, e finendo per convertirsi in establishment.
Così, dopo la Grande crisi del 2008, le fasce popolari e i ceti medi impoveriti e impauriti si sono ritrovati senza voce e privi di una sinistra in grado di rappresentarli, e si sono quindi rivolti sempre più all’offerta aggressivamente semplificatrice e illiberale dei populisti. Che ammanniscono formule semplicistiche e brandiscono un’inaccettabile politica etnica, a cui ha risposto in maniera inadeguata un irrigidito «liberalismo identitario» in rotta dopo la sconfitta di Hillary Clinton. L’Occidente si trova così a sprofondare in quello che Luce chiama un «pluto-populismo ibrido» in stile sudamericano, e vede il dilagare della politica «del rischio calcolato» (come la Brexit), impugnata da classi dirigenti di novelli apprendisti stregoni che non sanno poi gestirne le conseguenze. E la soluzione non è il reddito minimo garantito, che rischia di consegnare i più poveri a un futuro ravvicinato alla Hunger Games, fatto di galleggiamento e reality show. Mala tempora currunt, e non appaiono all’orizzonte pozioni magiche per ravvivare la democrazia liberale.
Luce non intende formulare un progetto politico, bensì applicare rigorosamente quella metodologia del dubbio e dello scetticismo senza acredine che dovrebbe costituire l’habitus mentale di ogni democratico. Perché solo il confutare i vecchi e i nuovi luoghi comuni, rivelando i fenomeni incompresi o invisibili all’opera, può riannodare i fili dell’assai indebolita fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni liberaldemocratiche.
Di fronte alla disruption digitale e alla marcia inarrestabile dell’intelligenza artificiale e dell’automazione spinta, la politica avrebbe dovuto attrezzarsi per tempo per indirizzare i processi e redistribuirne i vantaggi. Arrivati a questo punto, c’è assolutamente da sperare che sia vero il titolo della celebre trasmissione del maestro Manzi: «non è mai troppo tardi».