Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2017
Israele, un’economia a prova di guerra
Guerre e rivolte mettono in ginocchio l’economia di ogni Stato? Non per Israele. Forse nessun Paese al mondo ha dimostrato, anche nel recente passato, di avere un’economia così resistente a guerre e crisi internazionali.
Gli israeliani ricordano bene l’estate del 2006, quando scoppiò la guerra tra Israele e il movimento libanese degli Hezbollah. Per 40 giorni i razzi Katiusha lanciati dal Libano caddero sulle cittadine settentrionali. La popolazione viveva giorno e notte nei rifugi. Parecchi missili colpirono anche Haifa, terza città di Israele, nota per essere il centro industriale e il cuore della “digital economy” israeliana. Un quarto del territorio era paralizzato. Ci si sarebbe aspettati un disastro economico, invece il 2006 si chiuse con una crescita del 6% del Pil.
L’economia si era contratta, moderatamente, solo nel trimestre in cui era scoppiata la guerra, per poi riprendere a correre più veloce di prima. Una crescita che è continuata in modo costante. Anche quando, nel 2008, l’economia mondiale accusava una crisi finanziaria epocale, Israele non ne risentì. Né, sempre in quel periodo, la sua economia fu danneggiata dalla seconda guerra contro Hamas, l’operazione militare “Piombo Fuso” (27 dicembre 2008- 18 gennaio 2009). E nemmeno cinque anni dopo, quando scattò l’ancor più estesa operazione “Margine di protezione” (8 luglio-26 agosto 2014) per difendersi dalle centinaia di razzi Qassam lanciati da Hamas contro il territorio israeliano.
Sarà così anche per questa crisi? Guardando alla crescita media degli ultimi cinque anni – pari al 3% – gli israeliani hanno motivo per non essere pessimisti. Vuoi per abitudine (Israele è in perenne stato di conflitto sin dalla sua nascita), vuoi per la grande capacità di adattamento e flessibilità del settore hi-tech a lavorare in condizioni estreme, vuoi per l’efficienza dell’esercito nel proteggere i luoghi strategici, anche questa volta sembrano più agitati gli uomini d’affari stranieri che gli stessi businessmen israeliani. Quando, a inizio settimana, il leader di Hamas, Ismail Haniyeh ha invocato una Terza Intifada contro Israele, la Borsa di Tel Aviv è rimasta sostanzialmente invariata (-0,4%) così come la valuta locale, lo shekel. Eppure le due precedenti Intifade provocarono migliaia di morti tra palestinesi e israeliani. E la seconda, la peggiore (ottobre 2000-2005), sprofondò il Paese nella recessione (2001-2003). Ma fu l’ultima. E non appena cessarono le ostilità, l’economia ripartì subito.
Prevedere cosa accadrà oggi non è però possibile. Non è dato sapere quanto dureranno i disordini, se scoppierà una guerra vera con Hamas, o se la crisi sarà contenuta. Le stime di due mesi fa indicavano per il 2017 una crescita del 3%, e del 3,4% nel 2018. Finora tutti i dati segnalano un’economia in salute, per quanto caratterizzata da grandi disparità nella distribuzione della ricchezza. La disoccupazione si è dimezzata in otto anni cadendo al 4,8% nel 2016. I consumi privati sono cresciuti, sempre nel 2016, del 6,3% e gli investimenti diretti esteri hanno superato i 100 miliardi di dollari (il 36% del Pil).
Eppure c’è un settore, che la crisi la sente. È il turismo, che l’anno scorso ha impiegato direttamente 130mila lavoratori e altri 100mila indirettamente (non poco per una popolazione di 7 milioni). In questo caso guerre e Intifade hanno sempre svuotato le località turistiche israeliane.
Un colpo sarà inevitabile anche questa volta. Proprio quando il turismo stava vivendo un anno eccezionale. Nel periodo gennaio-ottobre 2017, sono stati registrati 3 milioni di ingressi di turisti (+ 25,6% rispetto al 2016). Un record. Il ministro del Turismo Yariv Levin aveva festeggiato. «Si tratta di numeri senza precedenti. Abbiamo assistito a 12 mesi di record consecutivi».
La stagione dei record si interromperà bruscamente. Ma l’economia israeliana ha le carte in regola per sopravvivere anche a questa crisi. E riprendere a correre.