La Stampa, 9 dicembre 2017
Un crollo ogni due giorni. Così frana il Nord Italia
Dal 1970, 108 persone sono morte e 9 non sono mai state ritrovate nell’Italia travolta da frane e inondazioni. La Natura non ha regole, i suoi fenomeni sono imprevedibili nel tempo e nello spazio, ma se colpiscono una porzione di territorio più di altre e da un po’ di tempo le causano danni sempre più massicci, un motivo ci sarà. Non può essere un caso se delle 117 vittime post 1970, 85 si contano negli ultimi dodici anni: 23 sepolte da una frana, le altre sommerse dall’acqua. E si concentrano nel Nord Italia.
Fabio Luino e Laura Turconi, dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr, insieme con alcuni geologi, hanno raccolto e classificato i disastri naturali dal 2005 alla fine dell’anno scorso nel Settentrione. Li hanno racchiusi in un volume: la fotografia dell’Italia che frana o annega. Hanno censito 2.125 eventi, alcuni modestissimi, altri devastanti: uno ogni due giorni. E hanno concluso che la Natura ha colpito il Piemonte 513 volte, la Liguria 413, la Lombardia poco più di 300 e il Veneto “appena” 200. Hanno scoperto che la Liguria è una terra martoriata: di fatto non esiste comune che sia stato risparmiato, si conta un evento ogni 13 chilometri quadrati e un quarto delle vittime (25) si annida in questo lembo stretto tra il mare, l’Appennino e le Alpi.
Hanno anche scoperto che quasi sempre frane e alluvioni avrebbero potuto essere innocue, o quasi, se l’uomo non ci avesse messo del suo: costruendo strade e ferrovie a ridosso delle montagne, ponti troppo bassi o troppo stretti, case e capannoni accanto ai corsi d’acqua. Così accade che nove persone muoiano sul treno regionale Merano-Malles, travolto il 12 aprile del 2010 da una frana di modeste dimensioni, appena 400 metri cubi. Che certi ponti siano troppo piccoli, come l’Odasso di Garessio: ogni volta che il fiume va in piena si trasforma in argine facendolo esondare e allagando il paese. O che qualcuno abbia pesantemente sbagliato i calcoli: il ponte ferroviario sul Bisagno è del 1870, ma sessant’anni più tardi si è deciso di coprire il tratto finale del torrente, e adesso un pezzo di Genova finisce sott’acqua a ogni pioggia violenta.
Solo il 17% delle morti sono state classificate come «imprevedibili», frutto di fatalità: ad esempio il 22 ottobre del 2013, a Carasco, provincia di Genova, quando il ponte sul torrente Sturla cede proprio mentre un’auto con due persone a bordo lo sta attraversando. Molto più spesso accade il contrario: le persone muoiono in zone vicine ai corsi d’acqua o alla base di rilievi, potenzialmente pericolose perché rientrano nelle aree di invasione di acque, detriti e di accumulo di frana; oppure restano intrappolate perché nessuna autorità pubblica ha deciso di evacuare case o chiudere strade e ponti. Come il 25 ottobre 2011 a Genova: sei vittime nel centro città invaso dalle acque del torrente Fereggiano, che imperversava da ore senza che qualcuno allertasse la popolazione. O il 29 maggio 2008 a Villar Pellice, nel Torinese: una colata si porta via una casa e un’auto, quattro morti; nel 1977 la stessa abitazione era stata sfiorata dai detriti trasportati dal torrente. Trentun anni dopo viene rasa al suolo. Nel frattempo nessuno aveva pensato di proteggerla. O abbatterla.
Sì, perché il dissesto idrogeologico richiede a volte decisioni drastiche, per sanare sciagurate scelte di programmazione urbanistica: la cementificazione di aree che andavano lasciate libere, la tombatura di torrenti e canali di deflusso, le costruzioni abusive spesso sanate dai condoni che hanno reso lecito ciò che non lo era. Non a caso i fenomeni d’instabilità naturale hanno coinvolto nel 68% dei casi censiti le infrastrutture e nel 32% le strutture, vale a dire case, edifici pubblici, attività commerciali e industriali.
Il risultato è che in assenza di un piano di mitigazione del rischio si finisce per rincorrere le emergenze, che hanno un costo sette volte maggiore rispetto alle azioni di prevenzione. Ogni anno, in media, si contano danni per due miliardi e mezzo causati da frane ed alluvioni. E non si vedono inversioni di rotta: la legge che dovrebbe arginare il consumo di suolo giace da tre anni in Parlamento e, nel frattempo, si continuano a cementificare 668 ettari di terreno al giorno. «Una stima che non rende del tutto l’idea», spiega Francesco Vincenzi, presidente dell’Associazione nazionale consorzi di tutela del territorio. «Il consumo di suolo si annida prevalentemente nel bacino Padano. «Paghiamo vent’anni di inerzia: se gli eventi naturali provocano sempre più danni è perché investono un territorio che non è libero ma largamente urbanizzato».
Ecco perché frane e alluvioni causano sempre maggiori danni. E lo fanno soprattutto al Nord.
Andrea Rossi
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Paradosso sicurezza: i soldi ci sono mancano i progetti
La buona notizia è che per la prima volta si sa che per arginare il rischio idrogeologico servono 9.397 opere per 27 miliardi. Inutile dire che i soldi non ci sono, non tutti almeno, ma almeno c’è anche un piano finanziario che investe da qui al 2023 quasi 10 miliardi. I guai spuntano subito dopo: i soldi ci saranno anche, ma al momento è quasi impossibile spenderli perché i progetti non sono pronti.
L’89% dei progetti del piano antidissesto «Italia Sicura», lanciato dal governo nel 2014, non è ancora cantierabile: è incapace cioè di trasformarsi in un cantiere entro due anni. Nella maggior parte dei casi gli interventi sono fermi alla fase dello studio di fattibilità o della progettazione preliminare: significa che mancano ancora i progetti definitivi, gli esecutivi per poi arrivare alle gare d’appalto e all’assegnazione dei lavori. Un ritardo che la struttura di missione istituita presso la presidenza del Consiglio spiega con le lentezze della burocrazia locale: Comuni e Regioni che, oltre ad aver proposto la lista delle opere da realizzare, dovrebbero anche seguirne la progettazione. È altrettanto vero – ed è la difficoltà sollevata dalle amministrazioni locali – che spesso gli uffici tecnici non hanno le risorse e le competenze per seguire interventi complessi e di grandi dimensioni. Senza contare, ed è l’ostacolo più rilevante, che Regioni e Comuni non possono presentare progetti esecutivi finché l’opera non è stata finanziata.
Per superare questo stallo nel 2015 sono stati stanziati cento milioni proprio con l’obiettivo di sbloccare la situazione. Finora con pochi risultati. Il meccanismo si è messo in moto solo nelle ultime settimane, quando il ministero dell’Ambiente ha sbloccato con 30 milioni il fondo a sostegno della progettazione e ha definito il finanziamento al primo pacchetto di progetti, 26, per un valore di oltre un miliardo: 14 in Piemonte, 5 in Friuli Venezia Giulia, 3 in Liguria, 2 in Veneto e altrettanti nella provincia autonoma di Bolzano.
È al Nord che si annidano le emergenze e il grosso delle opere legate a «Italia Sicura»: il Piemonte da solo ha progetti per quasi un miliardo e mezzo, 417 interventi per la mitigazione delle alluvioni e 272 per arginare le frane. Il Veneto è allineato sugli stessi valori: un miliardo e mezzo per 161 opere contro le inondazioni e 21 contro le frane. Da sole, queste due regioni assorbiranno un terzo delle risorse complessive. E poi c’è la Liguria, terra piccola ma devastata: 76 interventi per un costo complessivo di 700 milioni.
Di positivo c’è che riunire nello stesso progetto nazionale tutti coloro che si occupano, anche incidentalmente, di dissesto, e tutte le regioni, ha consentito una notevole semplificazione delle procedure ed evita inutili doppioni. Ha anche permesso di sbloccare 1.337 cantieri già finanziati ma fermi dal 2000. E di avviare il piano per le aree metropolitane, dove si concentra la maggior parte della popolazione a rischio: vale 654 milioni, ma finora ne sono stati spesi solo 114.
[a. r.]