Avvenire, 9 dicembre 2017
Castiglioni, l’alpinista che sfidò il Duce
«Vorrei tanto poter ritornare tra i monti, per ritrovarmi, per ritrovare tutta la mia energia, il mio spirito d’iniziativa, la mia volontà d’azione, il più vero me stesso». Così si chiude, improvvisamente, il diario di Ettore Castiglioni, alpinista di punta degli anni Trenta, che il regime fascista avrebbe voluto arruolare tra gli eroi della patria e che, invece, fu sempre in prima linea a fianco di esuli e perseguitati politici. E per questi ideali sacrificò la vita a soli 35 anni.
Nato a Ruffrè, in provincia di Trento, nel 1908, Ettore è il rampollo di un’agiata famiglia della borghesia milanese. Le sue giornate trascorrono tra lo studio all’università, alla Facoltà di Giurisprudenza, i musei, i concerti, i salotti e, naturalmente, le montagne, il vero, grande e, forse, unico amore della sua vita. Fin da ragazzo, mostra un talento fuori dal comune e, in breve, entra di diritto nel ristretto club dei sestogradisti, in compagnia di alpinisti del calibro di Comici, Cassin, Gervasutti, Boccalatte, Detassis, Bramani e Vinatzer. Il meglio del meglio di quel periodo eroico, di quei «giorni grandi» che hanno scritto pagine memorabili della storia dell’alpinismo italiano e non solo. Ben presto arrivano le prime ascensioni di sesto grado, limite massimo delle difficoltà dell’epoca, come lo spigolo sud-est del Sass Maor, salito con Bruno Detassis nel 1934, la parete sud della Marmolada con Battista Vinatzer nel 1936, o la parete nord-ovest del Pizzo Badile con Vitale Bramani nel ’37.
«Parlando di Castiglioni – ha scritto Gian Piero Motti nella sua monumentale Storia dell’alpinismo – è assurdo dire se egli fu il più forte o il meno forte di un periodo e di un certo gruppo di arrampicatori: forse alcuni furono senz’altro più forti di lui nell’azione pura, ma Castiglioni va giudicato come un artista della montagna, un uomo che seppe esprimersi al meglio in ogni settore, un alpinista veramente completo in ogni senso. E uomini così sono assolutamente rari nella storia dell’alpinismo ». Si capisce, allora, perché il fascismo voglia mettergli la camicia nera d’ordinanza, blandendolo con l’assegnazione di una medaglia d’oro per le sue ascensioni. Per lui un’offesa più che un onore. Che lo spinge a non pubblicare più le relazioni delle sue prime ascensioni, come ricorda il premio Strega, Paolo Cognetti, nella prefazione a Il giorno delle Mesules,(Hoepli, 244 pagine, 24,90 euro), che raccoglie il diario di Castiglioni, curato da Marco Albino Ferrari. A queste pagine Ettore affida i propri sogni e confida le proprie (tante) delusioni, non lesinando giudizi feroci sui governanti del tempo.
«Ho sempre sostenuto – scrive nel dicembre 1935 – che il vero alpinista non può essere fascista, perché le due manifestazioni sono antitetiche nella loro più profonda essenza. L’alpinismo è libertà, è orgoglio ed esaltazione del proprio essere, del proprio io come individuo sovrano, della propria volontà come potenza dominante. Il fascismo è ubbidienza, è disciplina, è annullamento della propria individualità nella pluralità e nella promiscuità amorfa della massa, è abdicazione alla propria volontà e sottomissione alla volontà altrui».
Una prospettiva inimmaginabile per Castiglioni che, all’indomani dell’8 settembre, da ufficiale dell’esercito italiano, scriverà, unica parola completamente maiuscola del diario: «Libertà. E così sia».
Da quel momento in poi, comincia la sua attività clandestina in montagna che culminerà nella breve (un mese soltanto) ma intensissima stagione della repubblica partigiana del Berio, che in patois significa sasso, la località dove si rifugia con un manipolo di amici fidati nel settembre 1943. Da qui, nell’alta Valpelline, accompagnerà nella vicina Svizzera, molti ebrei perseguitati dai nazi-fascisti ed esuli politici. Su tutti, il primo presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi.
Arrestato una prima volta dalle guardie di frontiera svizzere con l’accusa di contrabbando e tenuto in carcere per un mese a Martigny, Castiglioni è nuovamente fermato la sera di sabato 11 marzo 1944 al passo del Maloja, durante una semplice gita con gli sci, perché trovato in possesso di un passaporto falso. Rinchiuso in una camera d’albergo, gli vengono sequestrati gli scarponi e i vestiti per impedire che scappi. Ma le guardie svizzere non hanno fatto i conti con la caparbietà e la voglia di libertà di Ettore. Che, nel cuore della notte, si mette addosso una coperta e si cala dalla finestra. Nel gelo dell’inverno, corre verso il confine, verso l’Italia che è appena di là del Passo del Forno. Ma dopo ore di marcia ininterrotta, una sosta gli è fatale. Lo troveranno tre mesi più tardi, il 5 giugno. «Stava ancora con la schiena appoggiata alla roccia – scrive Marco Albino Ferrari, che ha condotto un’inchiesta sulle ultime ore di vita di Castiglioni – i ramponi ai piedi, le gambe rannicchiate semicoperte dalla neve». Oggi quel luogo è contrassegnato da un semplice chiodo da roccia.