la Repubblica, 9 dicembre 2017
Se Trump dà una mano ad Hamas
Com’era prevedibile, il “nuovo approccio” mediorientale evocato da Trump con la scelta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele rischia di risolversi in un vecchio schema: il rilancio del conflitto. Vanificando, così, persino l’efficacia delle inedite, e un tempo impensabili, alleanze che, in funzione anti-iraniana, stavano ridisegnando la regione.
Sino all’avventato annuncio della Casa Bianca il quadro regionale registrava la tessitura di un accordo tra Arabia Saudita e Israele, con la benedizione americana, che aveva come obiettivo il contenimento della crescente influenza iraniana nell’area. Più che mai, infatti, l’Iran è uscito vincitore dal conflitto siriano: scongiurando, con il suo intervento militare, l’insediamento di un potere sunnita nella Mezzaluna fertile sponsorizzato dai sauditi; mantenendo aperto quel corridoio, vitale per i suoi interessi, che va da Teheran a Beirut passando per Damasco; portando le milizie del fido “Partito di Dio”, guidato da Nasrallah, in aree del territorio siriano dalle quali può minacciare Israele; riprendendo, sotto il costringente mantello della Russia, il rapporto mai facile con la Turchia, diretta concorrente dei sauditi nella partita per l’egemonia tra le potenze islamiche sunnite.
Sconfitta su quel terreno l’Arabia Saudita ha cercato, con la sponsorizzazione degli Stati Uniti, un’alleanza con Israele cementata dalla comune convinzione che l’Iran costituisca per entrambi una minaccia strategica. Ma quell’insolita alleanza, un tempo tabù e oggi indifferente a molti regimi arabi alle prese con i propri problemi interni, aveva come presupposto la costruzione di una cintura di sicurezza nei confronti di Teheran, il cui primo terreno di prova è stato il Libano della vicenda Hariri.
Cimentarsi con questioni di grande impatto simbolico come Gerusalemme può essere un prezzo troppo elevato da pagare persino per il nuovo uomo forte del regime, il principe Mohammad bin Salman. Gerusalemme resta pur sempre il terzo luogo santo dell’islam e per la monarchia saudita, che si vuole “custode” degli altri due luoghi sacri, Mecca e Medina, avallare la scelta americana in nome della realpolitik anti-iraniana può essere un azzardo. I dotti wahhabiti, già ostili al futuro sovrano deciso a mettere all’angolo la loro rigida visione dell’islam, potrebbero togliergli quella legittimazione religiosa che, da sempre, costituisce la polizza vita del regime.
Un profilo basso dei sauditi su Gerusalemme, permette, poi, all’Iran di rivendicare il titolo di alfiere della battaglia per la città santa e porsi come punto di riferimento per la causa palestinese: spezzando, così, quell’isolamento dal campo sunnita perseguito proprio dall’inedita alleanza tra Salman e Netanyahu. Una mossa che, come dimostrano le dure proteste di queste ore e la proclamazione di una nuova Intifada, mette all’angolo la debole leadership dell’Anp, consentendo a Hamas, che ha promesso di immolare i suoi militanti per difendere Gerusalemme, di uscire dalla profonda crisi nella quale era precipitata dopo il lungo e logorato governo di Gaza.
Infine, anche il radicalismo in versione Isis o Al Qaeda, può trarre linfa dalla scelta americana, permettendo agli jihadisti di rilanciare la tesi sulla volontà dell’Occidente “crociato e sionista” di colpire ancora una volta l’Islam.
Insomma, una decisione, quella della Casa Bianca, che dà fuoco alle polveri in una regione in cui tutto si tiene e può incendiarsi con esiti imprevedibili.
(Renzo Guolo è professore ordinario di Sociologia dell’islam all’Università di Padova. Il suo ultimo libro è L’ultima utopia. Gli jihadisti europei, Guerini, 2015)