Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2017
Intifada fuori controllo, 2 vittime palestinesi a Gaza
Come era prevedibile la crisi si sta avvitando. Seguendo un copione già visto tante volte. Dai feriti di giovedì ieri si è passati alle prime due vittime palestinesi. Ora il timore è che le frange estremiste islamiche diano seriamente il via al lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro il territorio israeliano (finora sono stati lanci isolati, inoffensivi, di cui uno neutralizzato). Se ciò dovesse accadere, seguiranno inevitabili le rappresaglie militari israeliane. L’annuncio di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele sta inoltre aprendo uno scontro diplomatico tra Europa e Stati Uniti. Durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu su Gerusalemme, gli ambasciatori di Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Svezia hanno letto una dichiarazione comune dicendosi in «disaccordo» con la decisione di Trump.
Territori occupati nel caos
La “seconda giornata della collera” (ieri era il 30°anniversario della prima Intifada) non è degenerata finora nello scoppio della terza Intifada, come si augurava il movimento islamico Hamas. Ma il bilancio dei feriti, e l’imponente numero di manifestazioni (era venerdì, giorno di preghiera), sono un segnale inequivocabile: la situazione sta virando al peggio. Un giovane palestinese è rimasto ucciso ai margini della Striscia di Gaza, colpito da proiettili; e un uomo di 54 anni è rimasto ucciso in serata durante le incursioni aeree israeliane su Gaza, dopo il lancio di razzi su Israele. Per la Mezzaluna Rossa i feriti in due giorni di proteste sono 750 solo in Cisgiordania. Se a Gerusalemme la protesta è stata contenuta (solo qualche tafferuglio), nei Territori Occupati è andata peggio: a Betlemme, Hebron, Ramallah, Nablus e a Beit Khanun, a nord di Gaza, ci sono stati scontri con i soldati israeliani.
La protesta dilaga in Asia
Le proteste contro Israele e gli Stati Uniti sono dilagate in tutto il mondo musulmano. Dalla gran parte dei Paesi arabi(tra cui Egitto, Giordania, Iran, Libano, Iraq), passando per la Turchia, fino all’Asia. In Pakistan, Malesia e in Indonesia, il paese musulmano più popoloso, centinaia di persone hanno dimostrato davanti alle ambasciate americane.
Il fronte diplomatico
Ancora una volta sono i francesi i capofila di quello che si profila come uno scontro diplomatico sul processo di pace israelo-palestinese tra l’Europa e Trump. Il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha di fatto detto che gli Usa si sono auto-esclusi dal processo di pace: «Sento alcuni, incluso Tillerson (Segretario di Stato americano, Ndr), dire che è il momento dei negoziati. Fino a ora avrebbero potuto avere un ruolo di mediazione in questo conflitto ma si sono un po’ esclusi da soli. La realtà è che sono da soli e isolati su questo tema».
Durissima la dichiarazione del presidente palestinese Abu Mazen: «Con questa posizione gli Stati Uniti non sono pià qualificati ad essere gli sponsor del processo di pace».
Tillerson ha ribattuto che ci vorranno due anni prima che l’ambasciata Usa sia trasferita a Gerusalemme, precisando che lo status finale della città sarà definito nei negoziati tra israeliani e palestinesi. La Casa Bianca vuole mostrarsi convinta che i negoziati ripartiranno. Trump sembra scommettere che i suoi alleati in Medio Oriente non assumeranno iniziative drastiche contro gli Usa, sia perchè sarebbero troppo distratti da altre crisi regionali, sia perchè non vorrebbero rischiare di mettere a repentaglio il sostegno americano contro Iran e movimenti estremisti.
Giallo sul viaggio di Pence
Un processo di pace tuttavia non si può imporre. Né tantomeno si può costringere una parte ad accettare un determinato mediatore. Il viaggio in Medio Oriente del vicepresidente americano Mike Pence, tra 10 giorni, che Trump vorrebbe desse il via alla fase negoziale, rischia di trasformarsi in un boomerang. L’imam della moschea egiziana al-Azhar, Ahmed al-Tayeb, una delle massime autorità del mondo musulmano, ha rifiutato di incontrare Pence (incontro chiesto dalla Casa Bianca) in segno di protesta. Potrebbe saltare anche l’incontro tra Pence e il presidente palestinese. Jibril Rajoub, uomo di punta di Fatah, il partito di Abu Mazen, ha detto che Pence «non è il benvenuto in Palestina» e che l’incontro con il presidente palestinese, il 19 dicembre, «non ci sarà». Per Trump sarebbe uno smacco. E non potrebbe nasconderlo.