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 2017  dicembre 09 Sabato calendario

Il «caos costruttivo» di Cossiga. Nel 1992 l’ambasciatore americano lo vedeva come promotore di una terapia shock

È il mese in cui, dopo infiniti presagi e una lunga incubazione, il crollo della Prima Repubblica diventa concreto. Uno spartiacque che si allarga progressivamente nell’aprile 1992, incrociando tensioni e scontri politici destinati a cambiare la nostra storia, anche se pochi allora comprendono quale impatto potrà avere quella concatenazione di eventi. Fra chi s’impegna di più per venire a capo del rebus italiano ci sono i funzionari del dipartimento di Stato di Washington che, a nome del presidente George Bush senior, sollecitano continui chiarimenti all’ambasciatore a Roma, Peter Secchia. 
«Change is in the air in Italy», avverte il diplomatico nel prologo dei suoi report riservati di allora. E il cambiamento è davvero nell’aria su diversi fronti, ormai, mettendo in torsione il sistema politico e istituzionale e generando le premesse per la grande crisi. I segnali d’allarme, emergenza criminalità a parte, sono almeno tre: 1) le incognite apertesi dopo le elezioni del 5 e 6 aprile, le ultime alle quali partecipa la Dc e le prime senza il Pci, sostituito dal Pds, mentre sulla scena si affaccia con inaspettato successo la Lega; 2) l’esordio traumatico dell’inchiesta di Mani pulite, che farà presto tabula rasa dei vecchi partiti; 3) l’amletismo del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, il cui mandato scadrà il 3 luglio e la cui successione è al centro di tutti i giochi, dato che può condizionare pesantemente il futuro. 
Il dossier americano da poco desecretato, e al centro di un saggio su quella primavera di 25 anni fa al quale sta lavorando il docente della Luiss Andrea Spiri, è focalizzato su di lui. Sia perché negli Stati Uniti lo conoscono molto bene (era il tutore dell’organizzazione segreta europea Stay Behind, da noi ribattezzata Gladio), sia perché da un po’ di mesi piccona la politica (in particolare la sua Dc), facendosi promotore di un progetto di riforma costituzionale inviato alle Camere con un messaggio di 83 pagine ignorato dai partiti. 
Che cosa gli succede? Che cosa vuole sul serio? Che cosa accadrà quando uscirà dal Quirinale? Ecco le domande che rimbalzano dagli Stati Uniti e che si intuiscono dai documenti spediti dall’ambasciata di via Veneto. Secchia spiega la metamorfosi di Cossiga, passato da una fase «dal profilo basso e incolore» a una ruggente «crociata», elencando le interpretazioni che «affascinano l’Italia». Congetture che, nel cannibalesco scontro di allora, sono quasi sempre non nobili. E non tengono in conto il crollo del Muro di Berlino, definito dal picconatore «un’occasione liberatoria anche per l’Italia» perché ci consentiva di rimuovere quel fattore K che, escludendo i comunisti dalla stanza dei bottoni, aveva perpetuato mezzo secolo di «alternanza al governo senza alternative di governo». 
C’è l’ipotesi che la sua smania di sparare sul quartier generale «sia conseguenza di una o più patologie mediche o di farmaci che producono disturbi della personalità» (qualcuno parla di una destabilizzante psico-politica). Oppure il frutto di un «risentimento davanti alla richiesta di farsi da parte» in anticipo, mutuando «il sospetto di un complotto ordito dai leader della Dc» per insediare al Quirinale Giulio Andreotti. O, ancora, lo scatto umorale di un uomo «innamorato del potere» e con una «vena autoritaria già presente» che, «vedendo la nazione in pericolo», si sente «chiamato dal destino a prendere le redini del comando» muovendosi sul modello di una «Repubblica presidenziale alla francese». O, infine, «data l’inerzia del sistema politico», la sfida «all’oligarchia italiana» di «un patriota che si sente obbligato a intraprendere una rotta non convenzionale nel tentativo di favorire il processo di cambiamento».
Quest’ultima è la lettura che lo stesso Cossiga ha sempre accreditato, evocando per sé il ruolo di «profeta della catastrofe», costretto a praticare quella che il diplomatico Usa definisce una shock therapy per promuovere un «caos costruttivo» sul quale far lievitare una riforma del sistema. Secchia – anche secondo lo storico Spiri – parteggia per lui, con una vicinanza che va oltre la simpatia umana. E, dopo aver investigato sui motivi per i quali «tiene il Paese all’oscuro sui propositi di dimissioni anticipate», pronostica che la sua eredità potrebbe andare «ben oltre» il fatto di aver proiettato un’immagine (e un’idea) «più forte» dell’istituzione presidenziale. Per esempio verso una rielezione. Del resto, l’ambasciatore ripete più volte che i sostenitori di Cossiga «sono molti», e non solo fra la gente comune.
Per capirne di più, Secchia consulta il segretario generale del Colle, Sergio Berlinguer, cugino dell’ex segretario del Pci Enrico e parente dello stesso Cossiga. E poi il consigliere diplomatico di Andreotti a Palazzo Chigi, Umberto Vattani. Con entrambi si chiarisce che il presidente è davvero pronto a lasciare in anticipo l’incarico, «se questo favorirà una convergenza sulla nascita del nuovo esecutivo». Il problema è di trovare un modo «per consentirgli un passo indietro con dignità». Ma con Berlinguer e Vattani si approfondiscono anche altri temi. Per esempio l’ingresso del Pds in maggioranza, «improbabile». E la strategia del leader socialista Bettino Craxi («ferito, forse mortalmente, sul terreno della questione morale») per cannibalizzare il partito di Achille Occhetto, annettendo la corrente dei «miglioristi», guidata da Giorgio Napolitano. Berlinguer lo definisce «adat-tabile». Ma Secchia, che con Napo-litano ha parlato un paio di mesi prima, sa che «non avrebbe lasciato il Pds né accettato un incarico prescindendo dal partito». Tutte le manovre si chiudono provvisoriamente il 25 aprile, «data altamente simbolica» che Cossiga sceglie con i soliti intenti provocatori per annunciare il proprio ritiro.