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 2017  dicembre 09 Sabato calendario

Le giornate di Dell’Utri in cella, tra i libri e il calendario del Palermo

La cella è singola, piccola. Un letto, un armadietto, una sedia, una finestra in alto che dà sul cielo grigio, un tavolino colmo di libri, e fogli di giornale, e confezioni di farmaci. Qualche scatola di cartone a terra, una con qualche pera e mela, un piccolo televisore, un’immagine della Madonna e il calendario del «Lungo cammino della Serie B 2017-18», dove milita il suo Palermo, appesi al muro scrostato. È tutto quello che c’è nel luogo dove Marcello Dell’Utri ha deciso di lasciarsi morire: «Non accetto una lunga eutanasia». 
Lo ha detto all’amico Maurizio Gasparri, per lunghi anni collega di partito, che a nome suo, di tutta Forza Italia e di Berlusconi è andato a trovarlo ieri a Rebibbia, nel reparto sanitario del carcere dove sconta la sua pena di 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, inflitta nel 2014. Sono le tre del pomeriggio quando il vicepresidente del Senato varca i cancelli del carcere con due libri che non potranno essere consegnati, l’ultimo di Roberto Gervaso e un’opera postuma di Giulio Andreotti: «Se hanno le copertine rigide non me li danno...», sospira l’ex potentissimo senatore, che conosce la legge del carcere che prevede lunghi controlli per la consegna di oggetti ai detenuti, ma non la contesta: «Non ce l’ho con loro, la galera è così. Voglio morire ridendo, non voglio la pietà di nessuno. Voglio solo giustizia».
Vorrebbe potersi curare fuori dal carcere, Dell’Utri. Lo ha chiesto attraverso i suoi legali, con un’istanza di sospensione della pena per affrontare il ciclo di radioterapia che gli è stato prescritto per un tumore alla prostata, aggravato da una grave cardiopatia per la quale è stato necessario l’impianto di quattro stent cardiaci. Ma due giorni fa, il Tribunale del riesame ha respinto la richiesta di scarcerazione, nonostante anche i periti del procuratore generale si fossero espressi per l’incompatibilità tra le condizioni cliniche e lo stato detentivo: «Mi dicono che dovrei andare tutti i giorni, accompagnato dalla scorta, su e giù da questa cella all’ospedale Pertini o a Tor Vergata per la radioterapia. Non hanno idea di cosa significhi una trafila del genere nelle mie condizioni. È come infliggere una lunga, lenta morte. E allora decido io: non mi faccio consegnare più il pasto del carcere – tengo lì qualche frutto, qualche fetta biscottata, roba mia – e non prenderò più nessuna medicina. Basta. Che poi magari miglioro, venti pillole al giorno nemmeno fanno bene...», sorride amaro.
Non è prostrato Dell’Utri. O almeno non vuole apparirlo, né fisicamente né emotivamente. È, per dirla con Gasparri che ne descrive stati d’animo e che racconta i passaggi del loro dialogo, «sereno, fermo e deciso» nel respingere la richiesta «di tutti noi suoi amici di continuare a nutrirsi e a curarsi, perché faremo tutto il possibile per dare giustizia a lui come agli altri detenuti che si trovano in situazioni simili alle sue». Dell’Utri ringrazia, apprezza «quello che fate», ma alza le spalle: «Non riuscirete ad ottenere nulla. La politica non può fare niente, non conta più niente. In questo Paese vige ormai una “magistratocrazia”. È un giudice che decide se puoi fare politica, se puoi fare l’imprenditore, se puoi curarti. Lui e lui solo. E per me hanno deciso. Non ci credo più. Finché potrò continuare a fare le mie cose le farò. Poi, mi prenderanno da questo letto e mi porteranno via, quando sarà arrivata l’ora».
Le «sue cose» sono oggi la lettura, lo studio, gli esami universitari. È iscritto a Storia e letteratura a Bologna, ha dato molti esami – «Bellissima storia medievale, più studi e più ti rendi conto di quanto poco sai, eppure prendo tanti 30 e lode...», ha raccontato all’amico —, doveva dare Antropologia culturale in questi giorni ma la docente che attendeva in carcere ha rimandato l’appello. C’è tanto tempo per studiare nel silenzio dell’ala di Rebibbia dove altri, in cella comune, vicino a lui, scontano le loro pene nell’anonimato. La sala ambulatoriale ha sempre una luce accesa, ma non basta per curare i casi gravi: alcuni detenuti vengono trasportati avanti e indietro dal carcere perfino se devono subire cicli di chemioterapia. «Se hai un’emergenza, qui ci muori. Non è un ospedale, è un carcere», dice Dell’Utri a Gasparri. Che non ci sta: «Quest’uomo, secondo i conteggi penitenziari, ha già scontato due terzi della pena... Che senso ha questo accanimento?». Comunque gli hanno promesso che i due libri con dedica saranno consegnati presto. Per il resto, potrebbe essere il giudice di sorveglianza ad intervenire, se lo ritenesse necessario. 
Il quarto d’ora di visita è finito. «Mi raccomando Marcello eh, prendi le medicine, non fare come Socrate...». «Eh, ma qui mica te la danno la cicuta...». Una risata. Poi torna il silenzio. Rotto solo dal rumore dei cancelli, che uno dopo l’altro si richiudono.