Corriere della Sera, 9 dicembre 2017
Rabbia e morte tra i palestinesi per il caso Gerusalemme
Avviene sempre così, ogni volta che si riaccendono le tensioni tra israeliani e palestinesi i confini precedenti la guerra del giugno 1967 tornano a farsi concreti e immanenti. Ieri, per il secondo giorno consecutivo dopo la dichiarazione di Donald Trump su «Gerusalemme capitale di Israele», i giovani palestinesi sono tornati a manifestare per le strade di Gaza e Cisgiordania sino ai quartieri orientali di Gerusalemme armati di pietre e bastoni. Mentre, dopo il lancio di razzi da Gaza, l’aviazione israeliana ha colpito tre obbiettivi di Hamas nella Striscia: un morto, 20 feriti. Il leader del movimento islamico Hamas da Gaza giovedì aveva invocato la mobilitazione generale nei «giorni della rabbia». A lui aveva fatto eco da Ramallah il presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, che comunque fa appello all’Onu per chiedere una condanna internazionale della mossa americana. Ieri i medici della Mezza Luna Rossa parlavano di «almeno un altro morto» nella zona di Gaza, oltre a un’ottantina di feriti dai proiettili anti-sommossa israeliani e decine di intossicati dai gas lacrimogeni. Il rischio è che, nel caso dovesse aumentare il numero delle vittime, ogni funerale possa trasformarsi in un’occasione di scontro, alimentando la possibilità che le proteste possano strutturarsi in una «terza intifada».
Va però detto che, almeno per il momento, le proteste restano tutto sommato contenute. Nulla a che vedere con quelle che esplosero come un fiume in piena all’inizio della «prima intifada delle pietre», il cui trentesimo anniversario scade proprio oggi, e che segnarono profondamente la storia del Medio Oriente. E certamente una situazione molto diversa dalla «seconda intifada» dell’autunno Duemila, degenerata rapidamente negli attentati suicidi e le bombe nei caffè e sugli autobus. «Nel dicembre 1987 eravamo speranzosi in un mutamento radicale e veloce. Pensavamo che la nascita di un nostro Stato indipendente fosse imminente. Oggi mancano idee e leader», sostenevano ieri dopo le preghiere del venerdì in tanti tra i palestinesi che abbiamo incontrato presso la porta di Damasco e le vie della Città Vecchia che conducono alla spianata delle moschee.
Gerusalemme Est si è rivelata un buon termometro della situazione. Alcuni commentatori avevano ipotizzato che proprio qui potesse catalizzarsi il cuore violento delle proteste. La polizia israeliana era stata mobilitata con l’ordine di disperdere gli assembramenti. Ma la grande maggioranza dei fedeli musulmani ha ascoltato nella calma le parole durissime del Muftì contro Trump e il suo «oltraggio alla Città Santa», per poi disperdersi ordinatamente, mentre da tutto il mondo islamico giungevano notizie di manifestazioni in solidarietà con i palestinesi.
Soltanto alcune centinaia di giovani hanno poi inscenato piccoli cortei lungo la Via Dolorosa attorniati da decine di giornalisti. I loro slogan sono comunque indicativi: se la prendono contro Abu Mazen e i negoziatori palestinesi «responsabili degli inutili e perdenti accordi di pace del 1993». Parole dure sono state pronunciate anche contro il «traditore Mohammad bin Salman», il 32 enne principe reggente saudita che negli ultimi tempi si è avvicinato al governo israeliano in chiave anti-iraniana e, secondo alcune indiscrezioni (smentite da Riad), starebbe anche mediando un nuovo piano di pace che escluderebbe Gerusalemme dalla sovranità palestinese.