Corriere della Sera, 8 dicembre 2017
I voti ai protagonisti della prima alla Scala
E così il rito del Sant’Ambrogio scaligero s’è consumato anche stavolta. Rapido, come rapido è il passo teatrale di Andrea Chénier, uno dei manifesti di quella stagione del Verismo che in questi ultimi anni il Teatro s’è prefisso di riconsiderare in nuova luce interpretativa. Che il Verismo non fosse solo effetti senza causa, tinte forti e urlacci diretti alle viscere della platea, in verità lo si dice da decenni. Ma pensare che fosse fotografia autentica di un tempo che cambia e che già presagisse gli epocali cambiamenti a venire, un «ismo» prima di altri «ismi» più nobili e meglio considerati, questa sì che è una sfida.
Riccardo Chailly non ha timore di affrontarla. E la vince. Non è più il giovane interprete appassionato che portava energia ed entusiasmo ai cast supercollaudati con cui faceva Chénier negli anni Ottanta. Oggi la sua è una passione matura che gli suggerisce di stare al di qua del confine oltre il quale l’opera diventa compiaciuta esibizione di muscoli (anche se in quel truce finale Viva la morte insiem! non si può che alzare bandiera bianca), senza però mortificare quella drammaticità vigorosa che si attesta comunque tra le frecce più appuntite all’arco stilistico dell’autore. La musica di Giordano non «crea» una drammaturgia come quella verdiana ma «illustra» con totale disinvoltura l’azione (infatti, con libretti brutti non ha mai scritto opere belle; ma con buoni libretti come questo ha dato il meglio). E di tali qualità illustrative, fatte soprattutto di una mano felice nell’orchestrazione e, più ancora, nell’armonia (di qui la speciale stima che il Mahler direttore nutriva per il musicista foggiano), Chailly è interprete ideale, non solo perché basa il proprio lavoro su un’analisi profonda – l’espressione «battuta per battuta» non è un modo di dire – ma anche perché sa trasferire tale imprevedibile materia continuamente cangiante, con oggettiva lucidità e rara acribia, forte della reattività complice di un’orchestra e di un coro (lo guida il sempre esemplare Bruno Casoni) preparati a meraviglia.
È molto teatrale la sua lettura. Ma nella definizione del suono è una lettura «sinfonica». Gli impasti di archi nella scena del processo, giusto per fare un esempio, sono di una bellezza rapinosa. E così i colori «in manierato stile» del primo quadro.
Quale contributo apporti alla causa Mario Martone, in questo caso, è più difficile dire. Dopo un primo quadro corrosivo al punto giusto, punta sulla corda del Naturalismo.
Nulla di sbagliato in ciò. E nulla di brutto. Anzi, grazie anche alle scene di Margherita Palli (bravissima) e ai costumi di Ursula Patzak, è un Naturalismo «pulito», senza la tipica ridondanza degli spettacoli di questo tipo. Ottimo peraltro l’uso del fermo immagine nel legare un quadro all’altro. Ma è una regia difensiva, che osa poco. O meglio, che osa molto meno di quanto non fosse accaduto nelle precedenti tappe della «Verismo-Renaissance» scaligera: Cavalleria rusticana/Pagliacci nel 2011 e la pur discutibile Cena delle beffe nel 2015, quando Martone aveva esibito più coraggio, fantasia e idee nuove, plausibili oltre che ben realizzate.
Chi non deve aver avuto notti serene è il tenore Yusif Eyvazov, vista l’aria che tirava negli ultimi tempi. Non è il miglior Kaufmann (ma attualmente nemmeno Kaufmann sembra esserlo) ma ha conquistato la platea, in diversi momenti ha persino emozionato. Il timbro è strano, non bellissimo, e il fraseggio non è un modello di omogeneità, anche perché il suono perde volume nei toni gravi, ma la voce sa restare morbida e a suo modo pastosa anche negli acuti. E sono gli acuti di un tenore che ha personalità da vendere. Anna Netrebko conferma quanto si dice di lei. Ha classe. Non butta via un accento. E vanta un legato nel fraseggiare che oggi non ha paragoni. L’ampio monologo, per certi versi «verdiano», del terzo quadro è invece la ciliegina sull’ottima torta di Luca Salsi, un Gérard affidabilissimo, mai volgare, che mostra sempre di sapere, interpretativamente parlando, quel che dice.
Annalisa Stroppa, Judit Kutasi, Carlo Bosi, Gabriele Sagona e Mariana Pentcheva formano infine un manipolo di comprimari più che degni di una Prima di alto livello.