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 2017  dicembre 08 Venerdì calendario

«Andrea Chénier» conquista la Scala. Ovazioni per Chailly, 11 minuti di applausi

Storia e passione segnano alla Scala il trionfo all’opera inaugurale Andrea Chénier di Umberto Giordano. Grida di «bravo maestro» già dopo l’Inno d’italia, undici minuti di applausi finali e pioggia di coriandoli danno ragione al maestro Riccardo Chailly che, con virata radicale, punta a rivalutare (anche) il repertorio del nostro veemente tardo Ottocento, vicino al Verismo. Gli occhi erano tutti puntati sulla coppia dei protagonisti, che è coppia anche nella vita vera, la soprano star mondiale, Anna Netrebko, nel ruolo di Maddalena, e soprattutto il tenore Yusif Eyvazov, Chénier, un’incognita, al suo debutto alla Scala, che ha invece superato la prova tra gli applausi corali del pubblico. «È andata molto meglio di quanto pensassi e sperassi – ha confessato il cantante – È stata la serata più emozionante della mia vita e ringrazio ogni singolo spettatore che c’era alla Scala per il sostegno che mi ha dato». Condividendo così il successo con Luca Salsi (nel ruolo di Gérard), Annalisa Stroppa (Bersi), Judit Kutasi (Madelon), Gabriele Sagona (Roucher), Carlo Bosi (un Incredibile). E con il regista Mario Martone.
La Scala si apre così su un grande affresco storico. Nello scenario della Francia rivoluzionaria, questa non è solo la love story del poeta Chénier e della contessa Maddalena. Vi si intrecciano ideali sociali, il riscatto degli umili, il tema del potere e della sua degenerazione. 
Andrea Chénier, ha detto Chailly «è un’opera che impone la propria ambientazione». In effetti, la regia di Martone, le scene di Margherita Palli e i costumi di Ursula Patzak offrono un impatto visivo fedelmente settecentesco. La sala della festa iniziale, tutta oro brunito, è affollata da costumi d’epoca, parrucche, trine e jabot, sotto specchiere dai fregi rococò, nelle quali l’aristocrazia sembra incapace di scorgere la propria imminente dissoluzione. E dalle quali già si affaccia il Terzo Stato.
Le scene rotanti trasportano nel secondo quadro, in pieno Terrore, in uno scorcio parigino colorato da popolani e prostitute, coccarde, berretti frigi e gran sventolio di tricolori. Ma piano piano la scena si spegne, si «decostruisce». Pochi specchi deformano le illusioni di Gérard, l’ex servitore divenuto tribuno della rivoluzione. Quasi solo buio attorno alla folla che riempie il tribunale o nel carcere dove Chénier e Maddalena consumano il loro sacrificio.
E qui siamo al capitolo passione. Come aveva chiesto Chailly, nessuno, tranne qualche esile tentativo, ha applaudito al termine delle «romanze», neppure dopo quelle più intense e commoventi. Un unico flusso drammatico. Dall’inno all’amore universale di Chénier «Un dì all’azzurro spazio guardai profondo» al pianto della vecchia Madelon sul rintocco dei timpani, dal disperato racconto di Maddalena «La mamma morta» al cullante addio di Chénier, l’andantino «Come un bel dì di maggio». E mentre risuona lugubre la Marsigliese, l’ultimo duetto prelude alla trasfigurazione finale. Dal buio, la scena si riaccende, gli amanti cantano la luce avviandosi verso la ghigliottina: «La nostra morte è il trionfo dell’amore».