la Repubblica, 7 dicembre 2017
Impossibile unirla o dividerla, il destino della città-mondo
Impossibile unirla, impossibile dividerla. Resta solo da sperare nell’intervento dell’Onnipotente ma anche lui può mettersi di traverso, causa eccesso di emozioni e interpretazioni degli umani. Si dice che nel giugno 1967 Moshe Dayan, l’allora ministro della Difesa d’Israele, avesse posto ai colleghi del governo la domanda: «Ma davvero abbiamo bisogno di questo Vaticano?». Intendeva la Città Vecchia e il chilometro quadrato in cui si concentrano a Gerusalemme i luoghi santi dei tre monoteismi.
Lo stesso premier Levi Eshkol esitò prima di dare l’ordine di conquistare quel fazzoletto di terra. Come andò a finire si sa: è storia. Ma ancora nel 1993 Shimon Peres, all’epoca ministro degli Esteri e architetto degli accordi di riconoscimento tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, alla domanda dell’inviato dell’Espresso su cosa fare con il chilometro quadrato in cui si trovano la Spianata delle Moschee, detta anche Monte del Tempio, il Muro del Pianto e la chiesa di Santo Sepolcro, rispose: «Bisogna trasferirlo alla sovranità di Dio». Voleva dire: talvolta la ragione deve arrendersi al simbolo.
Facile a dirsi, salvo che le persone, i quasi 900 mila abitanti di quella che Donald Trump ha riconosciuto, contro il mondo intero, come la capitale dello Stato ebraico, vivono non solo di simboli e sogni di Redenzione (l’anno prossimo a Gerusalemme significa l’anno prossimo il Messia). La realtà della città eletta a dimora di Dio è fatta da divisioni e conflitti. Fin dalla sua struttura Gerusalemme, più che un agglomerato urbano coeso (una piazza, un centro di potere secolare e uno spirituale, strade di commerci e luoghi residenziali) è un insieme di isole e di enclave: ognuna con i suoi usi e costumi e in guerra con gli altri. Non è solo colpa dell’occupazione militare. La città era divisa fin dalla seconda metà dell’Ottocento, epoca in cui le potenze europee riscoprirono nel cuore del decadente Impero ottomano il suo valore simbolicoe geopolitico.
Investirono soldi e cultura, vi mandarono missionari e archeologi, spie e commercianti, costruirono chiese e ospizi.
Ognuno, Russia e Germania, Austria-Ungheria e Gran Bretagna, per conto suo e contro gli altri; tante piccole enclave. E stando al libro di Vincent Lemire, “Gerusalemme. Storia di una città-mondo” (Einaudi), perfino durante la guerra del 1948 sia i leader ebrei che quelli arabi miravano alla spartizione della città e non al potere su tutta la Gerusalemme. Finì con la cacciata degli ebrei dal loro quartiere in Città Vecchia e con l’esodo dei palestinesi dalla parte occidentale.
Diciannove anni dopo quel conflitto, nel 1967, gli israeliani conquistarono l’intera città. Ne ampliarono i confini, inclusero una ventina di villaggi e cittadine palestinesi. Rasero al suolo le case davanti al Muro del Pianto, per rendere il luogo degno dello status di centro dell’esperienza spirituale ebraica. Tutto questo sembra ovvio, ma non lo era e forse non lo è; per i sionisti dalla fine dell’Ottocento e fino agli anni Settanta del Novecento Gerusalemme era un richiamo romantico; la prassi era invece altrove, nei kibbutz e sulla riva del Mediterraneo, nella nuova e moderna Tel Aviv. Sapevano che Gerusalemme divide e non unisce perché parla del passato e non del futuro. Lo diceva Meron Benvenisti, a suo tempo vicesindaco, uomo di pace, incaricato a fine anni Sessanta di integrare le due parti principali e fino ad allora separate della città, l’Ovest abitato dagli israeliani e l’Est popolato dai palestinesi.
Ma il conflitto non è solo di carattere nazionale; pure la maggioranza ebraica (due terzi della popolazione) è divisa al suo interno. Ci sono quartieri dove l’ortodossia è legge: uomini separati dalla donne; niente abiti succinti; strade dove una signora laica rischia pesanti insulti. E del resto, altra anomalia della città, nella politica locale molte persone di sinistra appoggiano l’attuale sindaco Nir Barakat, che è invece di destra. Lo fanno per arginare l’offensiva dei fondamentalisti religiosi ebrei.
E poi ci sono i palestinesi residenti: liberi di muoversi nello Stato d’Israele, ma privi di cittadinanza. L’atmosfera nei loro quartieri non è differente da quella di Ramallah o Nablus, cuore della Cisgiordania.
Gerusalemme est sarà pure parte della capitale dello Stato ebraico, ma assomiglia a una città dell’Autonomia palestinese.
E per capire quanto Gerusalemme divida basti pensare che le chiavi della Chiesta di Santo Sepolcro sono nelle mani di una famiglia musulmana; una misura per rendere innocuo un altro conflitto; quello tra le denominazioni cristiane per il controllo del luogo in cui ebbe sepoltura Gesù.