La Stampa, 7 dicembre 2017
La tela di Kim. Tutti i Paesi con cui fa affari
Stremata dalla fame, isolata dal mondo e piegata dalle sanzioni internazionali. A ben guardare, però, la Corea del Nord è lontana dallo stereotipo che la descrive come il «Regno eremita». Qualche numero: la Repubblica Popolare Democratica di Corea ha relazioni diplomatiche con 164 paesi, 47 sono le sue rappresentanze all’estero e 24 paesi hanno un’ambasciata a Pyongyang.
Anche su una villetta in una strada nascosta del quartiere Eur a Roma sventola la bandiera dell’ambasciata nord-coreana, una delle sette in Europa: al suo interno lavorano 4 funzionari accreditati anche presso la Fao. La Farnesina ha interrotto invece la procedura di accreditamento dell’ambasciatore, che da metà ottobre non risulta essere più a Roma.
Se circa il 90% degli scambi commerciali del regime di Kim Jong-un passa per la Cina, molte sono le vie che la Corea del Nord usa per eludere le sempre più stringenti sanzioni del Consiglio di Sicurezza. A denunciarlo sono corposi report Onu, che tentano di tracciare la fitta e opaca rete dei collegamenti che il regime ha in tutto il mondo.
Mentre è al centro delle condanne internazionali per il programma nucleare e missilistico, Pyongyang continua a usare aziende di facciata e rappresentanze diplomatiche all’estero per finanziare il regime. In Africa, Pyongyang ha sviluppato una solida rete di amicizie che affonda le sue radici negli anni della Guerra Fredda. Tanzania, Angola, Namibia, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Uganda conservano una solida amicizia con Kim Jong-un. Se un tempo la Corea del Nord offriva armi e assistenza militare alle guerriglie comuniste nella lotta per la liberazione, oggi la relazione si è fatta meno ideologica e più pragmatica. In tutto il continente, Pyongyang vende armi e tecnologia militare, costruisce infrastrutture e statue, traffica in avorio e corno di rinoceronte.
Una delle tattiche più consolidate usate dai nordcoreani per aggirare le sanzioni è l’uso di cargo battenti bandiere false. Anni fa una nave partita da Cuba e diretta in Corea del Nord venne sequestrata a Panama. Sotto i sacchi di zucchero, c’era un arsenale: 240 tonnellate di armi di epoca sovietica: «obsolete» si giustificò il governo de L’Avana. Nell’estate 2016, una nave battente bandiera cambogiana con un carico di 30mila lanciagranate è stata intercettata nel canale di Suez. «Il più grande sequestro di armi nella storia delle sanzioni contro la Corea del Nord», è stato definito dall’Onu. Pare che il carico fosse destinato all’Egitto, anche se Il Cairo si è affrettato a negare. È stata la società egiziana Orascom a investire in Corea del Nord per realizzare il primo servizio di telefonia 3G del Paese.
Di vecchia data sono le relazione tra Corea del Nord e il Medio Oriente. Da decenni Israele mette sotto accusa le relazioni militari tra Pyongyang e Iran, Siria, Libia, Egitto, Yemen. Probabile che tecnici nord-coreani abbiano fornito know how e componenti essenziali per lo sviluppo dei programmi nucleari e missilistici di Teheran e Damasco. Nel 2007, nel corso dell’operazione Orchard, Israele compì raid mirati sul sito dove il regime di Assad stava assemblando un reattore nucleare identico a quello nordcoreano di Yongbyong e a cui stavano lavorando ingegneri inviati da Pyongyang.
La guerra civile in Siria è stata una miniera d’oro per Kim: cargo carichi di armamenti hanno viaggiato sulle rotte tra Asia e Medioriente, spesso in triangolazione con Cina o Malesia. Il panel Onu indaga su armi chimiche e convenzionali, oltre che sul programma di missili balistici di Damasco. Non solo. La Corea del Nord avrebbe fornito armi e assistenza logistica – come nella costruzione di tunnel – a gruppi come Hezbollah e Hamas. Migliaia sono i lavoratori-schiavi nord-coreani – fonte preziosa di valuta per il regime di Kim – impiegati nel settore delle costruzioni in vari paesi del Golfo.
Uno snodo cruciale è anche il Sud-est asiatico. È stata la Corea del Nord a costruire per 24 milioni di dollari un museo ad Angkor Wat in Cambogia, mentre in tutte le capitali della regione è ben visibile la catena di ristoranti «Pyongyang».
Al centro dei traffici della Corea del Nord nel Sud est asiatico c’è la Malesia, anche perché Kuala Lumpur garantiva l’ingresso senza visto ai nordcoreani. Una relazione solo parzialmente incrinata dall’omicidio di Kim Jong-nam, il fratellastro del leader avvelenato a febbraio con il potente agente VX mentre stava per imbarcarsi dall’aeroporto della capitale malese. Con la complicità d’intermediari e società di comodo registrate a Singapore, Hong Kong e Macao, la Corea del Nord riesce a riciclare denaro, importare beni di lusso e vendere armamenti. Milioni e milioni di dollari che transitano da conti correnti attraverso uno schema finanziario intricato – in cui sono coinvolte anche società occidentali – che consente di far perdere le tracce dell’identità delle banche nord-coreane coinvolte e di finanziare il regime.
L’Europa non è estranea a certe operazioni. I diplomatici di Pyongyang sfruttano la burocrazia per comprare appartamenti e aprire conti correnti in istituti di credito europei. Anche l’Italia è una base attraverso cui Pyongyang ha accesso al sistema finanziario internazionale, nota l’ultimo report delle Nazioni Unite. Per quanto il regime sanzionatorio in vigore monitori e restringa i movimenti dei conti correnti dei diplomatici di Kim in giro per l’Europa, ci sono Paesi in cui «non esistono vie legali per conoscere di più sui conti di ex incaricati d’affari e delle loro famiglie».